domenica 3 luglio 2011

Da Ulisse agli sciamani

Una intervista a Mario Polia, di Gabriele Marconi

Chi di noi, di fronte alle incredibili imprese di Indiana Jones, non ha sognato almeno una volta di impersonare l’avventuroso archeologo? Templi su vette impervie, misteri insoluti, città dimenticate… Un desiderio impossibile. Forse. E dico "forse" perché una persona così esiste davvero, anche se ha qualcosa in meno e qualcosa in più del personaggio cinematografico. In più: è esperto di kendo, paracadutista, alpinista… In meno: nessuna eroina bionda e formosa a girargli attorno (difficile, con uno che metà dell’anno la passa scavando sulle creste più sperdute della Cordigliera andina, e l’altra metà in un paesello altrettanto sperduto dell’Appennino italiano a scrivere libri e a progettare la successiva campagna di scavi).

Si chiama Mario Polia, e molti nostri lettori lo ricorderanno soprattutto per un libro, Le rune divine (ed. Il Cerchio), che per molti anni è stato l’unico - e tutt’ora il migliore - testo italiano sulla materia. Sempre per Il Cerchio ha pubblicato numerosi testi sui miti europei (Il mistero imperiale del Graal; Furor: guerra, poesia e profezia; Bushido; etc.), anche se la maggior parte dei suoi scritti sono in lingua spagnola, nell’ambito del suo insegnamento di Antropologia presso l’Università Cattolica di Lima: "Ho voluto aiutare gli studenti peruviani a riconoscere la loro identità storica, prima che venga spazzata via da questo vento di normalizzazione". È preoccupato da quello che sta succedendo in Perù, la sua seconda patria: "Ormai la sapienza tradizionale ha spazi sempre minori e sempre meno sono gli studiosi che ci si dedicano. Alcuni sono miei ex studenti, e di questo ne sono felice: continuano la mia ricerca con molto coraggio. Ma è diventato tutto più difficile, adesso, perché l’orientamento imposto dall’alto, dal nuovo corso politico solo apparentemente coinvolto con le realtà culturali autoctone, è quello di chiudere i ponti con quello che viene considerato "passato". Fin dalle scuole, oggi, li portano ad esempio a vergognarsi del nonno o del padre che prima di salire sulla montagna lasciava un’offerta di fiori. Si tollera il passato quando questo può ridursi a folklore, specie se lucrativo in vista del business turistico. Esistono, in proposito, precise direttive, come al solito dettate e imposte dal grande fratello del Nord, previa un’ultratrentennale, preparazione del terreno mediante l’opera capillare delle sette protestanti. Eppure, qualche battaglia riesco ancora a vincerla: poco prima di Natale, ad esempio, lo Stato peruviano ha stampato in edizione spagnola il mio libro La sangre del còndor e sembra che stia avendo un grande successo. Questo mi fa ritornare alla mente la vecchia frase di Tolkien: "Le radici profonde non gelano"".
Il suo ultimo lavoro, in uscita ancora per i tipi del Cerchio, è Imperium: origine e funzione del potere regale nella Roma arcaica, dove studia il re arcaico romano come una figura archetipica di sacerdote e di guerriero trascendente, cioè animato da una forza interna superiore a quella degli altri. Secondo questa sua interpretazione, "che si rifà giudiziosamente a tutte le fonti antiche", Romolo è sì il primo re di Roma, ma è l’ultimo di una lunga serie di re, che con lui si interrompe, a cui il dio stesso ha dato l’auctoritas, ovverosia il germe della trasformazione. "È un discorso sulla metafisica del potere".
Prima dell’estate verrà pubblicato anche un volume, frutto di tre anni di ricerche sulle radici religiose dell’Appennino centrale, commissionato dalla Regione Lazio tramite l’associazione Identità Europea. Ha girato di casa in casa, di vecchio in vecchio: ne è venuta fuori un’opera di rara bellezza, "perché evidentemente "i centri" sono ancora viventi". E vista l’estrema attualità dell’argomento, ricorderemo che suo è stato il primo lavoro critico italiano sull’autore più celebrato del momento: Omaggio a J.R.R. Tolkien. Fantasia e tradizione, del 1980 (Il Cerchio).

Come a tutti i nostri ospiti, anche a te chiederemo di partire dall’inizio, dalle prime emozioni che hanno contribuito a nutrire il tuo spirito.
Erano i racconti di mio nonno. Lui era un combattente della Grande Guerra, decorato… Le sue erano storie vere, storie di eroismo e di dedizione alla Patria, che lui stesso aveva vissuto o di cui era stato testimone. Inframmezzava questi ricordi con i racconti sui cavalieri, i draghi, le fate… Lui era contadino d’origine, e tutto il suo vissuto, anche mitico, cercava di trasfonderlo in noi nipoti. Ricordo con tanta trepidazione il momento in cui si avvicinava al letto, la sera, per darmi la buonanotte.

Come?
Con una preghiera. Poi mi benediceva sulla fronte. Ma prima di questo c’era il racconto.

Quindi vivevate insieme.
Sì, era una famiglia patriarcale: nonno, nonna, mio padre, mia madre ed io. Poi sono arrivati gli altri miei due fratelli e mia sorella. Vivevamo a Roma, all’Esquilino.

Ma non sono le mamme, a raccontare?
Anche lei, la sera, fin da quando avevo cinque, sei anni fino ai dodici, ci leggeva dei passi del Vangelo. E li commentava in maniera molto agile, adatta a noi bambini. Questi due filoni sapienziali venivano a fondersi senza scontrarsi: una vita vissuta da un combattente, che parlava anche per archetipi - il cavaliere alla ricerca della verità, il salvataggio delle dame, le imprese a favore dei deboli, degli esuli, dei poveri - e poi il filone profondo del Vangelo, nel quale mi sono trovato innestato fin da bambino senza alcuno sforzo.

Non era troppo pesante il Vangelo ogni sera, per un bambino?
No. Non lo era perché non lo vivevo come un’imposizione. Mia madre ha avuto la capacità di raccontare con delicatezza e passione. Alla fine ero io a chiedere che ogni sera si ripetesse quel rito. In ogni caso non andavo a letto senza uno dei due momenti: la lettura di mamma o il racconto di nonno.

Le prime letture?
Amavo molto la mitologia. Libri sulla Grecia, su Roma, sugli etruschi… Ricordo questa grande gioia di passare le ore leggendo, ad esempio, la riduzione per bambini, dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide. In particolare le ultime due, ma anche certi quadri dell’Iliade sono stati fondamentali, nella mia vita, perché mi hanno spiegato il rapporto tra uomo e sacro, la disciplina, il coraggio, il valore della parola data… un mondo in cui il vecchio avo era quello che incarnava questi valori per me che ero bambino. In qualche modo questo polarizzò la mia formazione, perché mi trovai quasi senza sforzo, da grande, a intraprendere gli studi di lettere classiche. Allora sono passato a letture più impegnative, nello stesso tempo formative.

Ad esempio?
Cesare: è stato uno dei miei autori preferiti. Gli autori classici fanno parte della nostra memoria storica e, credo, anche della nostra eredità sapienziale, per cui ritornare ad essi è sempre per me una gioia. Essendo di remote origini greche, da parte di papà, logicamente ho approfondito, oltre al pensiero romano, quello greco, in particolare la linfa più profonda, i presocratici, la Grecia arcaica.

Qual è stata la tua formazione… diciamo così… visuale?
Il cinema l’ho frequentato molto poco. Fin da bambino ho amato molto i panorami montani. Nonno era un alpino, e lo era anche papà, volontario in Grecia. Anche questa è stata una scelta di vita stimolata dall’esempio dei miei familiari, tant’è vero che lavoro e vivo in montagna. È stato questo, da sempre, il mio teatro naturale, sia per la villeggiature, sia per le gite… questi bellissimi momenti in cui i grandi prendono per mano i bambini e li portano a conoscere la natura. Mio nonno era un esperto di piante, un conoscitore profondo anche per tradizione di famiglia… La conoscenza della terra, il ritmo delle stagioni… tutte cose che lui mi ha trasmesso.

Film?
Come dicevo, non vado molto al cinema. E non ho neanche la televisione.

Ma Adolfo Morganti mi ha raccontato che vedeste insieme Excalibur di John Boorman…
Be’, quando ne vale la pena faccio uno strappo. Di Excalibur mi hanno colpito profondamente alcune reinterpretazioni delle saghe classiche sul Graal: ci sono due o tre punti simbolici di grande forza: lo svestimento dell’armatura di Parsifal nelle profondità dell’acqua, simbolo del passaggio alla Cavalleria Celeste; il rifiorire della Terre Gaste; l’arrivo del vascello da Avallon. Il cinema è una forma di espressione che, polarizzata da una prospettiva tradizionale, può essere un grandissimo strumento di conoscenza. Purtroppo poche volte lo è: I sette samurai, Dersu Uzala, Un uomo chiamato cavallo, Il gladiatore, Il tredicesimo guerriero… Non sono trattati di metafisica, per intenderci, ma, se ben realizzati, offrono il modo di abbeverarsi ad immagini e concetti "alti" con immediatezza e semplicità.

Tornando alla montagna, dicevi che anche tuo padre l’amava.
Per lui era il profondo silenzio. Senza che me lo abbia mai detto esplicitamente, avvertivo il grande rispetto che aveva nei confronti della natura. Quando ci arrampicavamo per i sentieri più impervi, sia con nonno che con papà, erano momenti di sacralità intensa. Io bambino non vedevo assolutamente differenza dal modo in cui entravano in chiesa e quello in cui camminavano sui monti.

Te ne accorgevi già allora o è una riflessione a posteriori?
L’ho sempre percepito. Ricordo perfettamente le prime escursioni, i primi scarponi che mi hanno regalato, il primo sentiero… Erano momenti intensi. Soltanto a tratti molto brevi interrompevano questo silenzio per dare informazioni sul panorama, sulle piante, o per raccontare qualcosa di degno. Altrimenti si camminava in silenzio. Nonno mi diceva sempre "senti il profumo dei fiori, perché anche questa è la voce di Dio". Queste sottolineature sulla sacralità della natura mi hanno accompagnato tutta la vita. Il modo di vivere la natura lo imparai fin dalla primissima età. Forse per questo non ho avuto mai un rapporto estremamente simpatetico con la città. Neanche conflittuale, ma se potevo scegliere, come poi infatti ho scelto, preferivo uscire dalla città. Il contatto con la natura ha, per così dire, organizzato le linee ideali della mia vita.

È stata, insomma, una sorta di imprinting, scientificamente parlando.
Io direi un’iniziazione a tutti gli effetti. Il deposito sacro della tradizione attraverso questi tre personaggi… nonno, mamma e papà… mi è stato veicolato con semplicità, come una cosa naturale, senza discussioni né pressioni. Con l’esempio vivente. Poi, crescendo e mettendo queste informazioni di natura tradizionale sul banco di prova della realtà di tutti i giorni, non c’è stato conflitto: la scelta già era fatta dentro di me. Per cui vivo nel mondo moderno, ma ancorato a quei valori che ritengo superiori a qualunque altra scelta.

In che anni hai iniziato il ginnasio?
Nel ’61, dai padri marianisti del collegio Santa Maria, in viale Manzoni. Furono loro, ad esempio, a farmi conoscere la figura di quel grande patriota francese, padre De la Chaminad, la Vandea… Valori profondamente cristiani.

A proposito di valori cristiani, la prima volta che mi sono imbattuto nella tua firma è stato con la rivista tradizionalista Excalibur.
Un’altra iniziativa nata in montagna, insieme ad un gruppo di amici di Roma. Ha fatto delle buone cose, poi ha preso un orientamento un po’, come dire… troppo rigido, ecco. Allora ho fondato un’altra pubblicazione, I quaderni di Avallon.

Nel 1980, giusto?
Sì. Partimmo da subito con una base più ampia di collaboratori, aperta anche a contributi di studiosi provenienti da altre esperienze. La cultura fine a se stessa non mi ha mai interessato: ritengo anzi che sia pericolosa. Penso che una delle grandi conquiste dell’uomo sia la capacità di dialogare, ma non per giungere ad artificiosi sincretismi: il dialogo avviene "tra sapienze". Io ho viaggiato molto, conoscendo esponenti di altre religioni, e l’incontro con loro è stata sempre una fonte di arricchimento, non di dubbi o di commistioni. Uno dei più bei momenti spirituali è stato nel periodo che ho passato scavando in Sudan, in una comunità sufi di cui ero ospite. Loro mi dicevano che seguendo la propria tradizione si può arrivare più vicini a Dio; e in questo modo si è più vicini a tutti quelli che percorrono cammini che, anche se differenti, tendono verso quel punto. Una sera fecero sulla sabbia il disegno del cerchio… Avevo sentito tante volte parlare di questo esempio simbolico, ma tracciato dalla mano sapiente di un sufi ebbe un valore importante.

Di cosa si tratta?
Un cerchio, due punti opposti sulla circonferenza; con un bastoncino tracciarono due raggi mentre spiegavano che, a mano a mano che ti avvicini al centro, la distanza tra i due punti diminuisce, anche se partono da differenti posizioni… da differenti tradizioni. Il rapporto tra sapienze, quindi, è per me un dialogare alla greca, un "parlare intorno alle ragioni profonde", ai logoi… un ritrovare i valori fondanti. In questo mi rifaccio agli antichi insegnamenti dei Padri della Chiesa: il Verbo Seminale, il Logos, il Dio che poi si incarna nella figura del Cristo, ma che prima di incarnarsi ha dato a tutti gli uomini, nella sua infinita misericordia, questi germi di eredità che poi si sono sviluppati nelle diverse tradizioni.

Sei a favore del dialogo interreligioso?
Sì, è una cosa buona purché, come dicevo, non scada nel sincretismo artificioso e fuorviante, ma porti a un arricchimento anche della nostra conoscenza di Dio, del sacro e delle tecniche per arrivare a realizzarlo.

E come si può evitare il sincretismo?
È un pericolo che si evita soltanto essendo innamorati della propria tradizione e seguendola fino in fondo col cuore aperto a ravvisare ogni germe di sapienza come riflesso della Sapienza. Penso a certe discussioni che si facevano alla corte di Federico II: è stato un momento molto fertile per la formazione dell’Europa.

Questo cammino, l’hai cominciato a percorrere in un periodo in cui molta parte della gioventù cominciava ad allontanarsene. Come vivevi questa contrapposizione?
Innanzitutto ero molto fiero della mia identità culturale. Ero cosciente di essere diverso. In questa diversità c’era un pericolo di emarginazione piuttosto forte, perché alla fine degli anni Sessanta o stavi da una parte della barricata o stavi dall’altra.

E "l’altra" era quella preponderante…
Appunto. Io non mi sono mai occupato di politica direttamente, per cui la mia era una posizione… non intellettuale… direi spirituale, ecco. Nel periodo delle lotte studentesche frequentavo l’università.

Studiando cosa?
Lettere antiche. Insomma, non essendo politicizzato, riuscivo a guardare le cose con un certo equilibrio. Le tensioni, le correnti che si agitavano, anche le giuste istanze, le vedevo al di là della politica di destra o di sinistra. La mia risposta, dentro, ce l’avevo: essendo ancorato a certi valori, questo mondo lo vedevo come può farlo un uomo della tradizione, con le sue luci e le sue grandi ombre. In questo momento mi sembra che le ombre si stiano allungando in maniera piuttosto considerevole.

E quindi?
Quindi bisogna porre il proprio punto di forza sulle luci, su quelle certezze, su quella serenità che ti dà il fatto di sapere che c’è una Provvidenza che dirige le sorti degli uomini quando gli uomini si fanno dirigere da lei. È una cosa che ho sempre presente e mi dà forza per sperare e andare avanti. Anche la cultura in quanto tale, se è scissa dal vissuto spirituale, non aiuta e non serve: è un mero agitarsi su vacui valori psichici non incarnati nel vissuto.

È per questo che parliamo di miti fondanti, perché cerchiamo di approfondire non le semplici radici intellettuali bensì le basi formative dell’essere.
Più avanti, certo, ho scoperto il sentiero attraverso il quale siamo passati in molti: la grande riscoperta di Evola, l’approfondimento di certe sue posizioni attraverso Guénon… Ma sono stati momenti di formazione. La cellulosa ritengo che vada digerita per crescere, poi si procede avanti. Non sono rimasto né evoliano né guenoniano, con tutto il rispetto per questi personaggi. Anche Attilio Mordini, per citare un altro grande, mi ha aiutato a percepire certe cose, ma non per questo mi sento un mordiniano. Il vento soffia da dove vuole e, purché venga da Dio, tutto va bene.

Su cosa ti sei laureato?
Una tesi nel campo dell’archeologia classica, Topografia romana per la precisione, sul Teatro di Pompeo, sotto il Teatro Argentina. Dopo la laurea ho fatto tantissimi altri scavi. Poi ho scoperto l’America e sono partito senza pensarci troppo.

Perché proprio l’America?
Perché mi sono reso conto che lì c’era più urgenza di qualcuno che facesse qualcosa per quella terra dimenticata. Da noi la situazione è abbastanza lottizzata, ci sono archeologi anche di altre nazioni… Mentre sulla Cordigliera delle Ande, non si era cimentato nessuno. Sono trent’anni che lavoro lì e sono rimasto sempre solo.

Dove, precisamente?
In una fascia compresa tra Perù ed Ecuador. Ogni anno scopriamo delle cose importanti.

Avevi detto che eri solo…
Dico "scopriamo" perché molti dei miei operai, dopo trent’anni che lavorano con me, sono diventati praticamente dei tecnici, oltre che dei fratelli. È tutta gente del posto. Io, qui o in America, lavoro col popolo, per riscattare le radici del popolo e perché i figli del popolo ne siano coscienti e fieri. Non accetterei di lavorare altrimenti.

A proposito, nel libro dove hai raccontato questa esperienza straordinaria, Il sangue del condor (ed. Xenia), dici che i tuoi aiutanti chiedono scusa agli spiriti dei defunti eventualmente disturbati prima di cominciare gli scavi, e ringraziano le piante quando raccolgono qualche germoglio per cucinarlo o usarlo come medicina, come insegnavano i loro padri. Ti è mai capitato, in Europa, di incontrare questo tipo di tradizione "vissuta"?
Francamente no. Da noi l’archeologia è una materia decisamente laica. Non è così in altri luoghi. Penso ad esempio all’Egitto, al Sudan, alla Turchia e in altre zone islamiche dove ho lavorato: è gente che opera in modo differente dal nostro. Per loro il lavoro fa parte del vissuto quotidiano ma non è alieno dalla preghiera, sicché i musulmani interrompono gli scavi per pregare, ma alla fine della giornata ti reintegrano il tempo che si sono presi per pregare. In Perù sono cattolici e il lavoro inizia col segno della Croce, ma, avendo elaborato una forma molto particolare di sincretismo religioso, quando ad esempio troviamo delle tombe loro fanno le offerte, a questi antichi morti. E siccome ritengo insano interrompere questo approccio, questa loro tradizione, li lascio fare. Tra i miei operai c’è sempre uno sciamano che… come dire… dirige i contatti col sacro locale. E loro lavorano tranquilli. Io, umilmente, vedo e apprendo, e capisco quella tradizione.

A proposito di sincretismo. Parte dell’ambiente di destra è stato ed è sempre interessato ad una sorta di neopaganesimo, o meglio ad una profonda sensibilità pagana. Molto di noi, malgrado siano cattolici, non passa anno in cui dimentichino di celebrare il momento intimo del Solstizio d’inverno…
Credo sia perfettamente legittimo, purché uno non lo faccia con la presunzione di compiere un rito: mettiamo subito in chiaro che il rito è un’azione che realizza il Sacro, ma che presuppone alle spalle una tradizione ininterrotta a livello sacerdotale. Nel fare invece una cerimonia altamente evocativa, non solo non c’è niente di male ma vi è un arricchimento spirituale. Passare una notte nel silenzio delle montagne, nella sacralità del momento del Solstizio, davanti al fuoco, con degli amici che sono arrivati lì con lo stesso animo, in purezza d’intenti, credo che non implichi deroghe o sincretismi. Né significa essere neo-pagani. Quando ho potuto ho sempre celebrato il Solstizio; quando non c’era nessuno l’ho fatto da solo. È sempre un momento di alta intensità spirituale, perché ci si ritrova con se stessi in un momento liturgico, di portata cosmica, perché fatto da Dio, a prendere delle decisioni di vita, a riaffermare i propositi di seguire il Cammino: una volta il sole arriva al massimo del suo splendore, ma da quel giorno comincia a guadagnare spazio la notte; e una volta la notte sembra aver vinto, ma da quella notte comincia a guadagnare spazio il sole. E siccome tutto il mondo dello spirito è analogico, allora leggere nella vicenda solstiziale il significato profondo dell’esistenza non può far che bene. Certo, se poi un cattolico celebra il Solstizio e dimentica di andare a messa a Natale, be’, il discorso si fa diverso.

Vivendo in un mondo così diverso com’è quello della cordigliera andina, come ti sei trovato con la tua formazione, le tue letture, i tuoi genitori e nonni… in una parola con la tua tradizione? Come sei riuscito a relazionare con gli indios?
Ho vissuto con queste popolazioni apparentemente così lontane da noi, come poteva vivere un greco del V/VI secolo a.C. Ho cercato di conoscere le cose che ci univano, ed ho visto le cose che ci dividevano come dei koan, degli enigmi che potevano essere risolti una volta penetrato il senso. Che poi sono sempre gli stessi tre fondamentali: da dove vengo, dove vado, chi sono. Tutte le filosofie e le religioni debbono rispondere a questi tre punti. Ci sono risposte che possono apparentemente differire, ma neanche tanto. E in Perù ho trovato splendide assonanze spirituali con l’Europa arcaica. Mi è stato facilissimo comprendere il pensiero sciamanico riportando alla mente i Frammenti di Eraclito: se lui fosse capitato in Perù ai suoi tempi, sono certo che avrebbe dovuto semplicemente imparare il linguaggio, ma poi si sarebbe trovato in un universo perfettamente consono al suo. È quello che è successo a me: il difficile, all’inizio, è stato decifrare i simboli e i modi d’espressione, dopodiché mi sono trovato di fronte ad un mondo che avevo sempre conosciuto. C’è un’unità profonda condivisa da tutti gli uomini "religiosi", in tutto il mondo, in tutte le comunità tradizionali. Un’unità che è riflesso dell’Uno.

Da www.area-online.it che gentilmente ringraziamo.

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