sabato 30 marzo 2013

Giustizia per Ponzio Pilato! [di Rutilio Sermonti]


Da romano quale mi vanto di essere, desidero assumere la difesa di Ponzio Pilato, quell’ottimo uomo e onorato funzionario, che viene ingiustamente vituperato, come ormai da secoli accade per l’azione sottile dell’ebraismo rabbinico, che – facendo scempio delle risultanze evangeliche – cerca di liberarsi dell’accusa di deicidio scaricandola sui Romani, e su quello in particolare.

Cominciamo col porre in chiaro che, all’epoca del processo a Gesù, la Giudea non era provincia romana, bensì “federata”. Il rappresentante del proconsole di Cesarea (come era il procuratore Pilato) aveva quindi giurisdizione politico-militare soltanto sui delitti di infedeltà a quel “foedus”, mentre, per tutti gli altri, e a maggior ragione quelli di sacrilegio contro la legge mosaica, la Competenza esclusiva era dell’autorità locale ebraica, e cioè del Sinedrio. Infatti, quando le guardie del Sinedrio (non i soldati romani!) arrestarono Gesù, cercarono di farlo condannare da Pilato con l’accusa di sedizione contro Roma.
Pilato interrogò accuratamente l’imputato, e la sua sentenza fu: “Io trovo quest’uomo immune da colpa”. Mi sembra un’assoluzione, o sbaglio? E anche in seguito, insistendo gli ipocriti accusatori che Egli si sarebbe proclamato re, chi rispose loro: “Ma il suo regno non è di questa Terra”? Fu proprio Ponzio Pilato.
E la narrazione evangelica continua. Quando sentì che il presunto delitto di sedizione politica, a carattere continuativo, sarebbe iniziato in Galilea, Pilato (probabilmente ben lieto in cuor suo di liberarsi di quegli austeri scocciatori), esattamente applicando il rito vigente, si dichiarò incompetente per territorio e rimise la causa al tetrarca di Galilea, Erode Antipa. Ebbene – registra l’evangelista – quando anche Erode dichiarò Gesù innocente “da quel giorno Pilato ed Erode, che erano prima in pessimi rapporti, divennero amici”. Quindi, la convinzione dell’innocenza del Cristo coinvolgeva Pilato anche sentimentalmente, al punto che la comune appartenenza al “partito innocentista” valeva anche a cancellare una precedente personale antipatia.
Ma il procuratore non si fermò li. Si impegnò per salvare Gesù anche al di là del proprio dovere istituzionale tanto da compromettere il proprio “cursus honorum”, al quale si sa quanto i Romani tenessero.
Consideriamo l’episodio della pasqua ebraica nella sua vera luce, coerentemente ai rievocati precedenti. Era tradizione che, in quel giorno, il popolo potesse graziare un condannato a morte. I condannati erano due: Gesù Nazareno e un certo Barabba, ladrone da strada e assassino. Pilato sapeva bene che Gesù era molto popolare (non poteva essergli sfuggita la domenica delle palme, proprio in Gerusalemme), e sapeva anche che il sinedrio lo odiava per quello e per la sua severa accusa contro la maggioranza di Farisei e Sadducei.
Si illuse quindi che, ricorrendo al popolo, egli sarebbe riuscito – senza violare la legge – a strappare il perseguitato dalle grinfie del suoi nemici. Sottovalutava l’astuzia o la perfidia dei vertici ebraici, che, prevedendo la sua mossa, avevano provveduto a far affluire per tempo nella non grande piazza una folta schiera di loro servitori e clienti, con istruzioni ben precise: Accadde così che, contro ogni logica, il risultato della “consultazione popolare” fu “Libera Barabba!”, sebbene Pilato fosse ricorso anche all’astuzia di far comparire il suo protetto in pubblico conciato in modo “teatralmente” idoneo (dice bene Sisto) a muovere a compassione.
Pilato, allora, costatata l’impossibilità di smuovere la marmaglia lì sotto dal proprio partito preso, grida “io sono innocente del sangue di questo giusto.”
Affermazione, quella, certo inconciliabile con l’ipotesi che egli stesso lo avesse condannato poco prima a morte e spiegabile soltanto col fatto che la condanna fosse stata pronunziata da “altri”, e che lui, Pilato, fosse – com’era – giuridicamente impotente ad impedirne l’esecuzione. Potete del resto passare alla lente d’ingrandimento i quattro vangeli, e non vi troverete il minimo cenno, non dico a una condanna di Cristo pronunziata da Pilato, ma neppure di una sua minima espressione che non fosse in Sua difesa, mentre più volte il testo dichiara che il Sinedrio, ad ogni costo, “voleva la sua morte”. Fu dunque il sinedrio, non Pilato, il giudice che condannò Gesù, e su questo non possono sussistere dubbi, essendo addirittura …Vangelo.
E arriviamo alla famosa “lavata di mani”. Si tratta di una patente mistificazione, che nessuno sembra avvertire. E le mistificazioni non sono mai casuali. Sta di fatto che solo pochi secoli dopo il fatto, al pubblico gesto di Pilato si attribuiva generalmente e pacificamente il significato di disinteressarsi, di tirarsi fuori vilmente e alibisticamente, tanto da usare comunemente l’espressione “lavarsene le mani” nel senso di estraniarsi da qualcosa, di sfuggire a una responsabilità. E’ un grossolano falso. Per un romano del primo secolo, il lavaggio delle mani (acqua lustrale) era un atto di purificazione.
Orbene, ci si purifica da qualcosa di indegno, di sporco, di impuro. E, se il gesto viene volutamente compiuto in modo pubblico, in presenza di altre persone, come Pilato volle che fosse, esso implica un’offesa gravissima alle medesime, una esplicita dichiarazione che il contatto con loro ci abbia contaminato, trattandosi di cosa ignobile, come certamente appariva a Pilato il complotto dei Farisei e loro complici contro il “giusto” Nazareno.
Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum – ordinò fosse scritto sulla tabella infissa al patibolo, e quando i sinedriali gli chiesero di modificarlo in “preteso re” fu irremovibile: “Quello che ho scritto, ho scritto!”.
È poco noto, ma la cosa, unita all’inaudito sfregio della catinella, procurò al procuratore un petulante ricorso ebraico all’imperatore, che valse al nostro la rimozione dall’incarico, essendosi giudicata prevalente la ragion di Stato che si mantenessero buoni rapporti con le autorità locali dei “federati”. Ci vollero altri quarant’anni perché Domiziano facesse quel che il modesto Pilato aveva, quel giorno tremendo, tanta voglia di fare!
Hanno fatto di lui il simbolo dell’indecisione, della pusillanimità, dell’incoerenza, mentre i suoi atti furono ineccepibili sia giuridicamente che umanamente. Vorrei proprio vedere, al suo posto, quelli che usano con disprezzo il verbo “pilateggiare”. Hanno fatto di lui l’aguzzino del Signore, quando egli lo difese persino quando i Santi Apostoli lo avevano abbandonato.
Perciò non condivido le idee di coloro che vorrebbero affibbiare a quel nostro degno antenato anche la taccia di positivista ante litteram oppure di sciocco. Essi risentono, si rifletta, della figura spregevole di Pilato confezionata dai veri deicidi. Gesù – della cui statura sovrumana il Romano aveva chiaramente avuto, se non conoscenza, almeno sentore – si dichiara a lui testimone della verità. E Pilato, come qualunque persona di una certa levatura, che non avesse assistito alla predicazione nei tre anni decorsi, gli chiese a quale verità alludesse. Non mi sembra proprio che occorra attribuire il silenzio di Gesù, piuttosto che alla materiale impossibilità di spiegare tutto a un pagano con una frase, o allo stato di estrema prostrazione fisica in cui si trovava, a un tacito rimprovero, né di dare alla domanda posta un senso… pirandelliano. Non mi risulta punto, infatti, che vi fosse la pena capitale per una mancanza di riguardo verbale a un qualsiasi funzionario dell’impero, né che i Romani, che hanno insegnato il diritto a tutto il mondo, sparassero pene di morte isteriche a casaccio. No, il perché del silenzio di Gesù lo sa solo Lui e così continui ad essere.
Quel che mi preme, è correggere l’ingiusto giudizio negativo su Ponzio Pilato, cittadino romano, e questo proprio alla luce dei vangeli.
Non si tratta di una mia peregrina opinione, dato che, nel calendario dei Cristiani Copti, il 25 giugno è dedicato a un Santo di nome Ponzio Pilato.
Tratto da Raido n. 26 – Contributi per il Fronte della Tradizione

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