mercoledì 16 gennaio 2013

Suicidi, esplosioni di follia individuale e neocapitalismo liberale


Inseriamo nel nostro blog, un articolo estremamente interessante di cui consigliamo la lettura in modo approfondito.

Con questo scritto mi propongo di chiarire la relazione che esiste fra la proliferazione dei suicidi per motivi economici, la moltiplicazione dei casi di violenza e delle esplosioni di follia individuale, da un lato, e il modo di produzione neocapitalistico dominante, dall’altro lato, politicamente compendiato dalla cosiddetta democrazia liberale.

      Per quanto riguarda i casi di violenza, dovuti a esplosioni di follia individuali, l’omologazione dell’occidente unificato dall’unico modello neocapitalistico ultraliberista, con l’esportazione di elementi culturali e stili di vita americani, accentua le similitudini fra la società nordamericana e quella di molti paesi europei, fra i quali vi è l’Italia in prima fila.

      Gli stessi comportamenti dei soggetti borderline europei, un tempo più tranquilli, meno esplosivi, meno portati a compiere gesti estremi rispetto a quelli americani, tendono sempre di più ad assumere connotati violenti, a immagine e somiglianza di ciò che accade in quella che potremmo chiamare la società-modello, o anche la società-matrice, visto il fenomeno dell’esportazione dell’americanismo (americanismo secondario) in Europa e in Italia, e la trasformazione delle società europee secondo il modello nordamericano negli ultimi decenni.

      La società nordamericana, in quanto società di mercato apparentemente senza classi, individualistica per genesi, fondata su un’immigrazione plurisecolare, è quella più adatta per garantire la riproduzione sistemica complessiva, rimuovendo ostacoli come i legami di classe e comunitari, togliendo acqua al pesce dell’antagonismo, subordinando al mercato la stessa politica. Le società europee si trasformano seguendo questa via, e la trasformazione, per quanto possiamo constatare con il semplice ausilio dell’esperienza quotidiana, è ormai in gran parte compiuta.

      Quali sono le ragioni che hanno imposto un simile cambiamento, distruggendo fino alle fondamenta la specificità europea, per modellare le nostre società in accordo con gli interessi sovrani della classe dominante globale?

      Il semplice dato economico, pur essendo rilevante e a sua volta fonte di cambiamenti nella strutturazione sociale, non basta a spiegare la profonda, irreversibile trasformazione delle società europee sul modello
(sociale) nordamericano e non la esaurisce. Altre considerazioni si impongono, su almeno due piani diversi da quello squisitamente economico, finanziario e commerciale, ricordando le manipolazioni antropologico-culturali di massa che si sono accompagnate alla diffusione della precarietà lavorativa ed esistenziale fra i dominati, e gli aspetti demografici legati alla sostenibilità sociale e ambientale del modello neocapitalistico dominante.

      In poche parole, l’obiettivo della classe neodominante non è soltanto quello di realizzare un esproprio di risorse epocale, l’ennesimo degli ultimi due secoli, questa volta a danno non dell’antica proprietà feudale, delle terre comuni, dei vecchi dispotismi asiatici o degli imperi indioamericani saccheggiati in epoca colonialista, o ancora, della proprietà statale nell’Unione Sovietica in liquidazione, ma nei confronti del lavoro operaio, dei ceti medi figli del welfare e di quanto di pubblico e collettivo rimane ancora in piedi nello stesso occidente del mondo. Un obiettivo non economico di primo rilievo è quello di trasformare l’uomo in un precario a vita o in un escluso, aderendo così alle necessità della creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica e un altro obiettivo, sul piano demografico, ma anche su quello ecologico e ambientale, è di ridurre nei numeri un’umanità che eccede di molto le sovrane esigenze neocapitalistiche, liberiste e liberali.

      La terra può sostentare sette miliardi e più di individui, in una generale intensificazione dei consumi di massa e delle produzioni?

Non serve neppure rispondere alla domanda, perché ambiente e demografia costituiranno sempre di più un cocktail micidiale, se il benessere materiale dovesse generalmente crescere ancora. In questo ultimo caso, per ottenere i risultati sperati in termini di sostenibilità sociale e ambientale del modello, si potrà arrivare alle stragi di massa, ma per ora, nell’occidente e nel nord del mondo, si seguono strade molto più morbide, si agisce ancora in modo soft e per via indiretta. Il problema delle braccia in eccesso, non impiegabili nella creazione del valore elitistica, e il pericolo di un’eccessiva impronta antropica sugli ecosistemi, ha consigliato i nuovi aristocratici globali di puntare su una significativa riduzione del numero dei viventi umani sulla terra. In quello che era il terzo mondo, e pensiamo ad esempio al Sahel o al Medio oriente, la fame, la sete, le precarie condizioni sanitarie e la guerra, malthusianamente, possono ancora contenere gli incrementi demografici, o alimentare i flussi migratori verso il settentrione, ma nel nord e nell’occidente del pianeta il problema demografico, che è nel contempo una rilevante questione ecologico-ambientale, si pone, almeno per ora, in termini molto diversi. Si tratta di ridurre la popolazione mondiale a oriente e a occidente per mantenere, più che l’ambiente naturale dell’uomo, l’integrità del sistema nel suo complesso, alimentando la creazione finanziaria della ricchezza ed estendendo il potere dei dominanti neocapitalistici. Questo ultimo scopo è il più agghiacciante, e rappresenta non una fantasia di articolisti impazziti, o di sociologi rancorosi, ma un obiettivo reale delle élite, di là di ogni possibile accusa di complottismo, frequente e abusata nei confronti di chi si oppone al sistema e cerca di svelarne i disegni.

      Un grande riflesso mediatico ha avuto l’ennesima strage in America, a Newtown nel Connecticut, prodotto della follia di uno squilibrato, tale Adam Lanza, che irrompendo in una scuola armato con armi da guerra ha ucciso un paio di decine di bimbi e sei dipendenti della struttura, uccidendosi a sua volta subito dopo. Si tratta di un episodio fra i tanti, in tal caso di estrema gravità e di grande risonanza, che, come molti altri eventi luttuosi e sanguinosi, è un esito degli stili di vita imposti, dell’assenza di riferimenti comunitari, della mancanza di prospettive diverse da quella puramente economica, dell’abbandono conseguente a un individualismo nichilista e distruttivo. Le dinamiche neocapitalistiche spingono i soggetti più instabili ed esposti ai gesti estremi, in alcuni casi particolarmente sanguinosi e spettacolari, come quello di Newtown. Ignoro gli specifici motivi del gesto di Lanza, ma la matrice è chiara e condivisa con numerosi episodi, in America e in Europa, d’improvvisi scoppi di violenza e di uccisioni, non importa se meno gravi e con una sola vittima.

      Nel 2009, a Los Angeles, un certo David Viens, cuoco sotto l’effetto di droghe, legò e imbavagliò la moglie prima di andarsene a dormire, per evitare che se ne andasse in giro in auto drogata. La trovò morta la mattina dopo, al risveglio, e ne fece bollire il corpo per quattro giorni nel pentolone del ristorante, per poi disfarsene gettandolo nelle fognature e nella spazzatura. La droga e la perdita di valore della vita sono altrettanti ingredienti dell’epoca, elementi indotti dal neocapitalismo, in grado di suscitare i mostri che poi finiscono regolarmente sulla prima pagina dei giornali. Quanto precede ben oltre la particolare situazione del tossico omicida, i lineamenti della sua storia individuale e le motivazioni specifiche del suo atto criminale. In Italia sono abbastanza frequenti le esplosioni di follia e le uccisioni fra le mura domestiche, a testimonianza della diffusione, in tutto l’occidente capitalisticamente sviluppato, di queste che sono autentiche patologie della vita quotidiana nel tempo presente. Nel primo quadrimestre dell’anno in corso, ad esempio, ci sono stati circa cinquanta casi di donne uccise fra le mura domestiche. Se in passato la violenza esercitata sulle donne era in buona sostanza psicologica, oggi diventa sempre più spesso fisica, fino alla soppressione della vittima. In generale, per quanto riguarda l’Italia, sembra che ogni mese si contano almeno dieci omicidi (non solo di donne) entro le mura domestiche, a testimonianza che il borderline europeo, più in generale il soggetto in condizioni di profondo disagio emotivo (e/o economico), tende ad assomigliare sempre di più, e più pericolosamente, a quello americano. Ci si avvicina a grandi falcate, considerando tali casistiche, al modello di società nordamericana di mercato, in cui la vita umana vale poco, i ruoli di genere (maschile e femminile) sono sconvolti, i soggetti abbandonanti a sé stessi scontano una competizione reciproca selvaggia, e le esplosioni di follia violenta tendono a moltiplicarsi. La normalità violenta del neocapitalismo si concretizza in questi gravi episodi di cronaca nera.

      Se in Italia, rispetto all’America delle improvvise stragi compiute da squilibrati, le armi non circolano fra la popolazione, ciò comporta qualche limitazione degli atti violenti e del numero di vittime, ma non sposta sostanzialmente i termini della questione. Potrà servire a qualcosa limitare la circolazione delle armi d’assalto, cosa di cui si parla con insistenza negli USA dopo la strage di Newtown, ma ciò non risolverà il problema. Le ragioni più profonde si devono cercare, nella grande maggioranza di questi casi, proprio nelle dinamiche neocapitalistiche, nella genesi della società di mercato, nel funzionamento e nelle esigenze strutturali del nuovo capitalismo ultraliberista e neoliberale. Il libero mercato e la fitta rete di scambi commerciali che lo costituisce, caratterizzando la società aperta di mercato, non possono in alcun modo porgere un senso compiuto all’esistenza umana. Il tempo discontinuo della precarietà, e della grande solitudine dell’idios cui rimane soltanto la dimensione privata, genera nell’essere instabilità, insoddisfazione e vuoto esistenziale. Un vuoto esistenziale che l’avere prevalente sull’essere, l’uso e l’abuso di sostanze psicoattive e psicofarmaci, i ludi dell’epoca, la perniciosa smania del consumo non sono in grado di riempire.

      Sembra che non ci siano difese, nei confronti del neocapitalismo che impone rapporti sociali (di produzione) particolarmente distruttivi per molti. Limitare la vendita di armi ai privati, con particolare riguardo a quelle d’assalto e da guerra, non risolverà il problema. A tale riguardo, prestando attenzione alla società-modello nordamericana, non posso non ricordare il celebre ciclo delle armi di Isher dello scrittore americano di fantascienza A. E. van Vogt, costituito da due grandi romanzi, I negozi di armi e I fabbricanti di armi.

      In questi volumi, partendo dalla libertà di portare armi per difendere se stessi e i propri averi – importante in una società individualistica come quella del Nordamerica – le armi tecnologicamente avanzate vendute ai cittadini dai fabbricanti di armi servono per potersi difendere dagli abusi dello stato, dalle leggi di un fantomatico impero di Isher proiettato settemila anni nel futuro (che metaforizza il cosiddetto impero USA nei tempi a venire), dagli abusi del grande capitale finanziario che spadroneggia con le sue razzie. E’ chiaro che nei fondamenti della società di mercato nordamericana, in cui da sempre ha un grande valore il diritto di detenere privatamente e di portare armi, vi è una concezione hobbesiana dell’uomo, nei termini di homo, homini lupus (l’uomo è un lupo per il prossimo, e fin dai tempi di Plauto), nonché un’idea dello stato come di un potenziale nemico, da contenere e da ridurre ai minimi termini, affinché non ponga troppi limiti alle fantomatiche libertà individuali, le stesse che informano il liberalismo e il liberismo economico. Non a caso le armi di van Vogt, vendute dai mercanti, prodotte dai fabbricanti avversari dell’impero, pur essendo avanzatissime e diverse dalle vecchie armi da fuoco, conservano i nomi tradizionali di revolver o di carabina, e nella storia di Fara Clark, alle prese con gli abusi di un impero-stato che vuole prevaricarlo, sono proprio le armi dei mercanti a rendergli giustizia.

      La metafora delle armi di Isher, di Elton van Vogt, serve per comprendere che nei fondamenti della società-modello nordamericana vi è una concezione dell’uomo che si comporta come un lupo nei confronti dei suoi simili – molto lontana da quella aristotelica dell’uomo animale politico, sociale e razionale (zoon politikon e zoon logon echon, o animal
rationale) – e che lo stato, simboleggiato dal futuribile impero di Isher, è un male forse necessario, quanto la delega del monopolio della violenza all’entità sovraindividuale da lui simboleggiata, ma sicuramente un nemico potenziale, e talora effettivo, delle libertà individuali, non di rado la fonte stessa d’innumerevoli abusi e prevaricazioni. Concezione dello stato, questa, vicina a quella del padre del neoliberismo nuovo-capitalistico Milton Friedman, che propose senza mezzi termini di realizzare la democrazia attraverso il capitalismo concorrenziale, cioè attraverso il libero mercato sovrano, limitando al massimo le funzioni e i monopoli attribuiti allo stato. Come si nota, in ciò è del tutto assente l’eco della lotta di classe otto-novecentesca. Al conflitto verticale fra la classe dominante e quella dominata – formidabile motore della storia – si sostituisce la solitaria lotta del singolo contro un’entità statale troppo invadente e contro i suoi stessi simili. Se le armi dei mercanti di Isher, avversi all’impero, nella fantasia di van Vogt servivano per difendere il singolo dagli abusi del potere costituito e delle sue burocrazie, le armi da guerra vendute dai supermercati dell’America contemporanea – nel rispetto dell’individualissima libertà di portare armi – servono per estrinsecare, fino alle estreme conseguenze, tutto il disagio del singolo abbandonato a se stesso in una società di mercato sempre più insidiosa e vuota di senso. Una società in cui, oltre ai nemici, si moltiplicano anche i fantasmi della follia. Per quanto riguarda l’Italia colonizzata dal neocapitalismo e dai suoi agenti sopranazionali, sappiamo che le armi non circolano liberamente, in grandi quantità, fra la popolazione, come invece accade in molti stati USA federati. Le armi, da noi, sono prerogativa dei corpi di uomini in armi, deputati a difendere il sistema, e della criminalità organizzata, dotata di numerose manovalanze, che spesso incrocia i grandi interessi neocapitalistici (droga, finanza, traffico di schiavi, eccetera) e con loro si armonizza. Purtuttavia, anche da noi gli episodi di violenza estrema, che causano vittime innocenti e autosoppressioni, tendono a moltiplicarsi suscitando sempre meno emozioni e sconcerto. Una certa assuefazione a questi episodi – che in molti casi hanno risonanza mediatica e costituiscono semplici elementi dello Spettacolo sostitutivo della realtà – costituisce una forma di difesa per il singolo e nel contempo di silenziosa accettazione del sistema.

      I suicidi per motivi economici, conseguenza estrema del cosiddetto fallimento individuale, sono un effetto precipuo della società di mercato, in cui il valore più importante è quello dello scambio commerciale, universalizzato dal denaro, e il frutto di una selezione darwiniana neocapitalistica che penalizza i meno adatti a produrre ricchezza e a creare valore, smaltendo in molti modi le eccedenze umane quasi che fossero cascami di produzione di poco conto. I circuiti di creazione del valore azionario, finanziario e borsistico contemplano, efficientandosi e allargandosi, riduzioni della forza-lavoro impiegata e riduzioni progressive dei costi legati all’impiego del fattore-lavoro. Le logiche finanziarie, espressione di una nuova concezione della ricchezza, s’impongono sempre di più nella produzione, sussumendola, così come il capitale finanziario derivato postmarxiano (e postkeynesiano) sussume il capitale produttivo/ industriale alimentato dal pluslavoro monetizzato. La doppia sussunzione del lavoro, ridiventato semplice fattore di produzione, comporta inevitabilmente la sua svalutazione e per i redditi da lavoro il bagno di sangue della loro continua riduzione. Lo impone il nuovo modo di produzione sociale neocapitalistico ultraliberista finanziarizzato, che non potrebbe sopravvivere a una più equa, o un po’ meno iniqua, distribuzione del prodotto. La realizzazione del sogno di un anarcocapitalismo senza distribuzione della ricchezza e doveri sociali sembra ormai a portata di mano. Il suo raddoppio ideologico è rappresentato dalla teoria economica neoliberista e dalla teoria politica (neo)liberale, che coesistono e si completano a vicenda nello spazio unificato dal capitale.

      Davanti all’esigenza sovrana del capitale finanziarizzato la vita umana, che può erogare fattore-lavoro, si svaluta fino alle estreme conseguenze, e rispetto all’energia, o a certe materie prime, o alle tecnologie avanzate, è destinata a diventare merce spregevole, sempre di più a buon mercato. Uno dei modi per smaltire le eccedenze umane, inutili nella creazione del valore azionario, finanziario e borsistico, e per attuare la selezione darwiniana neocapitalistica, è quello di favorire l’autosoppressione di coloro che restano disoccupati senza prospettive, dei malati o degli anziani senza reddito inservibili nelle produzioni, dei piccoli imprenditori e piccoli professionisti non competitivi, marginali, stritolati dal mercato e, come accade sovente in Italia, da una fiscalità punitiva – ma soltanto per i più deboli – anch’essa darwiniana. Naturalmente le leggi del mercato e la spietata selezione darwiniana neocapitalistica sono rivolte contro i dominati, e non possono valere per i membri della classe alta postborghese, l’Aristocrazia finanziaria globale. Così, in un’Italia completamente sottomessa ai soliti poteri esterni e occupata senza l’uso dello strumento militare, già nel marzo dell’anno in corso, da poco insediatosi il direttorio Monti-Napolitano, su circa quattromila suicidi censiti nell’arco di un anno si pensa che almeno un terzo di questi sia dovuto a motivazioni di ordine economico. Non si tratta ancora di grandi numeri, ma la tendenza è all’aumento, e con l’avanzare della crisi, che sarà particolarmente cruda nel 2013 in termini di fallimenti d’azienda e di incrementi della disoccupazione, si può fin d’ora temere il peggio. La tendenza all’aumento delle autosoppressioni per fallimento individuale (di natura economica,
ovviamente) è riscontrabile negli ultimi anni anche in paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda, e non è certamente un caso. Anche se i paesi europei meridionali e mediterranei presentano una percentuale complessiva di suicidi inferiore a quella dei paesi del Nordeuropa, l’autosoppressione per motivi economici sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti.

      I destini di operai e piccoli imprenditori si intrecciano drammaticamente, così, il 10 aprile 2012, un’operaia cinquantenne, moglie di un imprenditore edile del trevisano, si è impiccata nel giardino di casa per le difficoltà economiche dell’impresa familiare. Al massacro contribuiscono abbondantemente la famigerata equitalia, braccio armato dell’agenzia delle entrate, e l’agenzia stessa. Nel maggio di quest’anno, un sessantenne titolare di un’impresa edile (settore particolarmente colpito dalla crisi), si è sparato nel santuario di Pompei. Nella lettera che ha lasciato il suicida lamenta le vessazioni di equitalia, unitamente ai problemi economici della sua intrapresa. Nello stesso mese, un imprenditore settantenne cagliaritano (la Sardegna è una regione colpita al cuore dalla crisi) ha tentato il suicidio per asfissia, è stato salvato dai familiari, ma poi si è ucciso con un colpo di pistola. I motivi del gesto sono la paura del fallimento, e l’oppressione subita attraverso le tasse e i debiti. Di casi così se ne possono ricordare molti, visto che sono da qualche tempo all’ordine del giorno i suicidi di piccoli imprenditori (e di artigiani e piccoli
professionisti) travolti dalla crisi strutturale sistemica, dalle politiche neoliberiste, dall’imposizione fiscale banditesca e selvaggia e dal carico di debiti. Ma è la disoccupazione a mietere altre vittime, ai livelli più bassi della piramide sociale. Sempre nel mese di maggio del corrente anno, un salernitano quarantanovenne si è impiccato all’interno di un capannone industriale, nella periferia di Salerno, perché aveva perso la sua occupazione di custode e aveva avuto lo sfratto dall’alloggio in cui viveva. 
Nella lettera che motivava il gesto aveva scritto che si considerava un fallito e non poteva più vivere.

      L’autocolpevolizzazione delle vittime, indotta dal sistema, ha avuto purtroppo un grande successo, inibendo reazioni di massa davanti agli espropri subiti e favorendo l’autosoppressione di coloro che annaspano in gravi difficoltà. Rivolgere l’arma contro di sé accusandosi di aver fallito, nelle situazioni disperate in cui si sono trovati molti suicidi per motivi economici, rappresenta una vittoria neocapitalistica sulle masse di dominati e una rinuncia, da parte delle vittime dell’oppressione sistemica, alla ribellione e alla lotta. Come se una vittima incolpevole che subisce aggressioni criminali reiterate rinunciasse a un estremo tentativo di difesa, restando inerte e subendo passivamente le violenze, fino ad arrivare a sopprimere se stessa, non potendone più delle violenze subite. E’ 
sicuramente vero che i numeri, in relazione ai suicidi per motivi economici indotti dalle politiche neoliberiste (e neoliberali), sono significativi ma ancora contenuti, e la motivazione economica non esaurisce la casistica dei suicidi, che è più ampia. Però anche questa è una via nuovo-capitalistica (e per quanto ci riguarda come paese, euromontiana) per smaltire le eccedenze umane non impiegabili nella creazione del valore finanziaria ed elitistica. 
Non è un caso che i due principali colpevoli della disastrosa situazione italiana, i complici Monti e Napolitano, davanti al moltiplicarsi di questi luttuosi eventi abbiano mantenuto il più a lungo possibile uno stretto riserbo. Non è un caso perché un obiettivo dell’applicazione delle politiche euromontiane, in accordo con le dinamiche neocapitalistiche, è quello di smaltire le eccedenze umane, eliminando il superfluo, senza generare costi sociali. Ciò dovrebbe far comprendere la sostanza criminale, anzi, stragista, della tanto decantata opera di Monti e del suo esecutivo, benedetti da Napolitano e serviti da Bersani, in cui non c’è e non ci può essere spazio alcuno per mitigare il disagio economico e sociale di gran parte della popolazione, per la considerazione delle sofferenze inflitte scientemente ai cosiddetti ceti meno abbienti e al ceto medio impoverito. Al contrario, l’estendersi del disagio e dell’impoverimento è uno specifico obiettivo neocapitalistico, riflesso nelle politiche di Monti, per creare un vasto serbatoio di mano d’opera senza diritti, ricattabile e a basso costo. 
Secondo queste logiche eticamente aberranti, ben venga, quindi, la proliferazione dei suicidi per motivi economici, che costituiscono un indicatore del successo delle politiche neoliberiste e neoliberali applicate.

      In conclusione, il nesso fra la proliferazione dei casi di esplosione di follia individuale, con esiti violenti, e l’aumento dei suicidi per ragioni economiche è rappresentato proprio dall’applicazione delle politiche neoliberiste e neoliberali nelle società umane, concepite come società di mercato aperte agli scambi commerciali, sul modello nordamericano, e dominate dai sovrani interessi della creazione del valore azionario, finanziario e borsistico.

di Eugenio Orso - 09/01/2013

Fonte Pauperclass

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