Quando
ti capita tra le mani il romanzo “le porte di fuoco” di Steven Pressfield, il
primo pensiero che ti attraversa la mente non può che essere: “ah, vabbè
n’altra cosa sulle termopili…” Eppure il romanzo di Steven Pressfield ha due
marce in più rispetto a qualsiasi altro libro, film, fumetto che tratti di
quell’epica impresa dei trecento eroi spartani contro l’immensa onda
dell’esercito persiano: l’eccezionale potere di coinvolgimento nelle vicende e
l’estremo e minuzioso realismo con cui sono descritte le cruente fasi di
battaglia. Attraverso una prosa secca ma nel contempo densa di significato,
l’autore narra attraverso lo scriba del Re persiano Serse, il racconto di
Xeone, arciere e scudiero dell’esercito del Re spartano Leonida sopravvissuto
al massacro: si parte dall’infanzia del guerriero sfuggito al saccheggio della
sua città assieme alla cugina e rifugiatosi poi a Sparta, dove dopo un duro
periodo di apprendistato durante il quale stringe un forte legame con
Alessandro, diviene scudiero di uno degli esponenti di maggior spicco e valore
tra i Lacedemoni (Dienece), per poi partecipare, come indicato alla battaglia
tra la schiera dei trecento eroi spartani. Da notare che ogni personaggio del
romanzo possiede una forte e solida personalità e rispecchia caratteristiche
qualità ben definite e differenti: difficile quindi non affezionarsi e non
seguirne con rapimento le gesta. Come
accennato, il realismo e la naturalezza con cui sono narrate le fasi di
battaglia (ma non solo) rasenta la perfezione: l’autore non si fa alcun
problema ad accennare a crani sfasciati, gambe mozzate, fango sudore sangue,
interiora, persino feci e urine… il risultato è che sembra quasi di essere
immersi nel campo di battaglia, di trovarsi tra la polvere e il fango di
quell’angusto passo e di respirarne l’aria fetida. Va citata poi l’estrema cura con cui lo
scrittore descrive Sparta in tutta la sua interezza: la vita, l’addestramento,
la guerra, il rapporto tra i sessi.. Un vero e proprio inno a ciò che Sparta
rappresenta, una città in cui l’uomo poteva veramente dirsi libero attraverso
una vita donata al sacrificio, votata al superamento di Sé, attraverso il
superamento di sforzi fisici, psicologici e spirituali, in modo da non cedere
mai a phobos, ovvero alla paura. A Sparta nascevano, crescevano, morivano
uomini temprati col fuoco, pronti a sopportare qualsiasi prova e capaci di
resistere, grazie all’affiatamento e al “mastice” che inevitabilmente univa
uomini guidati dalla stessa forza divina, contro le forze organizzate dal Re
persiano Serse. A tal proposito, si riporta un intero passo tratto dal libro,
un ode da parte di Pressfield a ciò che veramente era Sparta e i suoi
guerrieri.
“Non c’è nulla che
riempia il cuore di un guerriero di coraggio più che trovarsi - sé stesso e i
suoi compagni - quasi sul punto dell’annientamento, sull’orlo della disfatta e
della sopraffazione per poi ritrovare –non solo dentro di sé ma soprattutto
grazie alla disciplina e all’addestramento- la presenza di spirito di non farsi
prendere dal panico, non abbandonarsi alla disperazione, ma al contrario
trovare la forza di fare quelle semplici azioni d’ordine che Dienece aveva
sempre sostenuto essere dote suprema del guerriero: eseguire compiti normali in condizioni ben lungi dall’esser normali.
E non solo per se stessi, da soli, come Achille o gli eroi di un tempo, ma come
parte di un’unità, sentirsi accanto ai compagni d’arme, in un momento di caos e
disordine, compagni che uno non conosce nemmeno, con i quali non si è mai
addestrato; sentirli riempire gli spazi accanto a lui, dal lato dello scudo e
quello della lancia, davanti e dietro, vedere compagni affrettarsi a coprire le
falle e combattere, non in una frenesia e in un impeto dettato dalla paura, ma
con ordine e compostezza, un ordine in cui ciascuno conosce il proprio ruolo e
lo ricopre, a trarne forza così come l’altro trae forza dal resto dell’unità; e
in questi momenti il guerriero combatte veramente come un dio. (…) I medi erano
soldati di valore, erano tanti e senza dubbio grandi nel combattere su un campo
di battaglia ampio e aperto (…) ma non erano preparati al combattimento con la
fanteria pesante degli elleni. Non sapevano reggere la spinta continua ed
inesorabile, non erano abituati a mantenere il passo e muoversi all’unisono;
non avevano avuto lo stesso addestramento degli spartani nel mantenere la
posizione, la copertura a sé stessi e al compagno. Per cui ben presto si
scomposero. Davanti agli spartani, si disperdevano come pecore che vedono un
incendio nel proprio recinto, senza cadenza né coesione, alimentati solo dal
coraggio che, sia pur enorme, non poteva certo prevalere con l’assalto
disciplinato e compatto che ora si trovavano di fronte.”
Elio
Carnico
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