martedì 22 febbraio 2011

Lettera aperta di Dora Liguori a Roberto Benigni

Gentile Signor Benigni,
         una mancanza di obiettività quando si affronta la storia, sia pure a fini spettacolari, crea sempre dei  danni; se poi la mancanza proviene da lei, che di certo è un personaggio straordinario o come spessissimo dice, riferendosi ad altri “memorabile”, e lo fa attraverso il mezzo più mediatico esistente - la televisione-  questo danno diviene assolutamente grave sino a raggiungere l’offesa.
        Pertanto mi consenta, come direbbe qualcuno, di fare alcune precisazioni al suo lungo, e peraltro in certi momenti esaltante, monologo sui prodromi dell’Unità e conseguente lettura del famoso inno di Mameli.
         Prima osservazione: Cavour, a differenza di Mazzini e Garibaldi,  non è morto povero ma, grazie alle possibilità consentitegli anche dal suo ruolo di politico, anzi di primo ministro del regno Sabaudo, divenne ricchissimo attraverso ben orchestrate e poco ideali operazioni speculative in Borsa.
         Seconda osservazione: il regno del Borbone non era il peggiore d’Italia sul piano delle persecuzioni agli esponenti del (giustissimo) pensiero liberale, figlio dell’illuminismo, bensì lo era proprio il Regno di Piemonte e Sardegna che fece perseguitare, arrestare, torturare e condannare a morte il più alto numero di patrioti liberali (Mazzini e Garibaldi compresi, anche se quest’ultimi scamparono, alla morte, fuggendo). I Savoia divennero, solo dopo, per quelle storture tipiche delle esigenze politiche e soprattutto economiche, assertori delle dottrine liberali; conversione avvenuta non tanto per unire il Nord con un Sud che massimamente disprezzavano, bensì per unire le loro disastrate casse con quelle pingui del regno dei Borbone. L’Unità consentì, infatti, la sopravvivenza della loro dinastia almeno fino al 1946.
         Terza osservazione: l’Unità non fu movimento di popolo ma azione, come sopra detto, di pochi gruppi di liberali, per lo più esponenti dell’aristocrazia del Nord e dell’alta borghesia, i quali, in “fortunata combinazione” con interessi internazionali inglesi (leggasi zolfo siciliano e apertura del canale di Suez) nonché interessi finanziari dei Rotschild in Francia, preordinarono ed effettuarono una specie di “golpe” nel meridione. Per questa azione molto poco idealistica (i primi ad essere traditi, dopo, furono proprio i principi liberali) fu raccolta una somma ingente presso i “fratelli” inglesi e americani, utile ad ammorbidire pensiero ed azioni dei vertici militari borbonici e consentire, per l’appunto, il cosiddetto golpe o meglio invasione del Sud. D’altra parte scoprire che il denaro sia l’arma più efficace per combattere e ribaltare diritti e ragioni delle genti è una storia antica come il mondo.
         Ultima osservazione, o in questo caso omissione da parte sua: Mameli e Novaro avevano vent’anni quando decisero di rischiare la vita per testimoniare i loro nobili ideali, e pertanto meritano rispetto; lei però dimentica che avevano vent’anni anche le migliaia di giovani del Sud i quali, per un’ideale, altrettanto rispettabile, quale quello di difendere la propria terra invasa proditoriamente, furono fucilati, senza processo, o deportati per trovare morte nei tremendi lager allestiti, appositamente, dai Savoia in Piemonte.
Non pensa che anch’essi, meritino pietà e rispetto?
         Signor Benigni, lei ha scelto di fare una delle arti fra le più antiche ed onorabili della tradizione artistica, ovvero il “giullare”, uomo al quale, per le capacità ironiche ed istrioniche, tutto veniva consentito dire dal potente di turno. E spesso il giullare fu l’unico che seppe elevare la sua coraggiosa voce a difesa della verità e dei vinti. Ebbene, non tradisca, oggi, quest’antica missione per porsi, lei, ultimo vero giullare, in controtendenza, del tutto dalla parte dei vincitori.

         La prego, pertanto, per le nobili motivazioni di cui sopra, di divenire testimone di come tutte le vittime della raggiunta unità, abbiano diritto ad un identico pietoso ricordo e rispetto. Anzi mi permetta di sottolineare che proprio l’alto tributo di sofferenza pagato dal Sud ha finito col rendere, particolarmente cara e imprescindibile, a noi meridionali, la raggiunta, anche se ancora incompleta, almeno moralmente, unione.
        Termino, pregandola, se non vuol tenere conto delle mie parole, di porgere attenzione, vista la sua stima per Garibaldi, alle severe parole che, proprio il 17 Marzo 1861, in occasione dell’apertura dei lavori del primo Parlamento italiano, il Generale  profferì, a Torino. Esse furono parole accusatorie per i terribili avvenimenti che erano intervenuti e che proseguivano nel martorizzato Sud: dicasi guerra civile, dopo e a causa della sua conquista.
         In virtù di queste premesse, e per quanto di tragico è comunque accaduto, per tutte le vittime di Nord e Sud, e in sintonia anche con il pensiero di Garibaldi, il 17 di marzo, non crede che, forse, sarebbe più appropriato il suggerire agli italiani non di festeggiare ma di celebrare l’Unità d’Italia?

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Di una pedanteria realizzabile solo nel paese cosi' mediocre da dover criticare i pochi dalla nostra parte. Per cosa poi?per dimostrare di essere piu' colti di un comico? Ma per favore. Non c'e' niente di peggio di un saputello quando non serve.

puntozero ha detto...

Ci preserviamo il dovere di stigmatizzare il comportamento di chi non riconosciamo come nostra parte.
Ci scusino lorsignori pur se non gradiscono.

Se il cardine è forte, che la porta sbatta pure... saluti!