I comunisti che controllavano il CLNAI, come primo atto ufficiale, addirittura il 26 aprile, proprio mentre si continuava a sparare e mentre era iniziato “l’olocausto nero”, abolirono la “Legge sulla Socializzazione”. E questo per ripagare ...i grandi industriali che avevano finanziato la Resistenza. Fu il “capolavoro” di Mario Berlinguer, il padre di Enrico, il grande capitalista, super proprietario terriero. Era iniziata la grande beffa ai danni dei lavoratori. [cit. D.S.]
“La Socializzazione non è se non la realizzazione italiana, romana, nostra, effettuabile del socialismo; dico nostra in quanto fa del lavoro il soggetto unico dell’economia, ma respinge la livellazione inesistente nella natura umana e impos...sibile nella storia”.
(Mussolini – 14 ottobre 1944).
Il teorico e storico della dottrina cattolica Don Ennio Innocenti, che tanti anni ha dedicato allo studio e all’insegnamento, ha scritto che il problema affrontato da Mussolini nell’ultimo decennio della vita “fu quello di far entrare il corporativismo nelle imprese per elevare il lavoratore da collaboratore dell’impresa a partecipe alla gestione e alla proprietà e quindi ai risultati economici della produzione. E aggiunge: “Durante la R.S.I. fu emanato un decreto che prevedeva la socializzazione delle imprese. E’ stato questo, sostanzialmente, il messaggio che Mussolini ha affidato al futuro. E’ un messaggio in perfetta armonia con la Dottrina Sociale Cattolica, che è e resterà sempre radicalmente avversa sia al capitalismo sia al social-capitalismo. In quest’ultimo messaggio mussoliniano di esaltazione del lavoro noi ravvediamo qualcosa di profetico”.
L’idea di un “socialismo effettuabile” sorse in Mussolini già nel 1914, quando uscì dal Partito Socialista, organismo velleitario e ciarliero, e la sviluppò nell’immediato dopoguerra.
Leggi d’avanguardia
In questo secondo dopoguerra è stato scritto e detto che l’idea mussoliniana della Socializzazione “fu un tardivo espediente per ingannare le masse lavoratrici”. E’ una delle tante menzogne, fra le mille e mille, di un regime corrotto e inetto terrorizzato dal dover affrontare un serio confronto con lo Stato che lo aveva preceduto.
Tutta l’attività del Governo Mussolini fu un susseguirsi costante di decreti e leggi di chiara finalità sociale, all’avanguardia, non solo in Italia, ma nel mondo.
Quelle leggi, di cui i lavoratori italiani ancora oggi godono i privilegi, sono quelle volute da Mussolini nei suoi vent’anni di governo. Qualsiasi confronto con quanto fatto dai governi di quest’ultimo dopoguerra risulterebbe stridente.
Da tutto ciò si evince il motivo per il quale i governi che seguirono nel dopoguerra, per evitare un democratico confronto, sono stati costretti a creare una cortina di menzogne e contestualmente varare leggi antidemocratiche e liberticide, quali le “Leggi Scelba”, “Legge Reale”, e “Legge Mancino”.
I principi essenziali dell’ordinamento corporativo sono espressi e ordinati dalla “Carta del Lavoro” che vide la luce il 21 aprile 1927. La “Carta del Lavoro” portava il lavoratore fuori dal buio del medioevo sociale per immetterlo in un contesto di diritti dove i rapporti fra capitale e lavoro erano, per la prima volta nel mondo, previsti e codificati.
In un articolo di fondo apparso alcuni anni or sono su “Il Giornale d’Italia”, fra l’altro si leggeva: “La nascita dello Stato corporativo rappresentò il tentativo di superare i limiti del cosiddetto Stato liberare e l’incubo dello Stato sovietico. Il secondo conflitto mondiale infranse l’esperimento in una fase che era già cruciale a causa dell’isolamento internazionale provocato dalle sanzioni e dall’autarchia.
Il Diritto Corporativo tende a porre l’Uomo al centro della società postulando principi dei quali citiamo alcuni tra i più caratterizzanti:
1)ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa;
2)partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa;
3)partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali, onde evitare chiusure di aziende o licenziamenti improvvisi senza che ne siano informati per tempo i dipendenti, i quali sono interessati a trovare altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro;
4)intervento dello Stato attraverso suoi funzionari, immessi nei Consigli di Amministrazione, allorquando le imprese assumono interesse nazionale, a maggior difesa dei lavoratori;
5)diritto alla proprietà in funzione sociale, cioè lotta alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto lavoratore, alla proprietà della sua abitazione;
6)diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso sociale contro l’appiattimento collettivista e le concentrazioni capitaliste;
7)edificazione di una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la Previdenza Sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia, le colonie marine e montane per bambini poveri, l’assistenza agli anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari, e via dicendo;
8)eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in base al principio che se un cittadino non può farsi giustizia da sé, altrettanto deve valere per i conflitti sociali; evitare scioperi e serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla collettività nazionale;
9)abolizione dei sindacati di classe, ormai ridotti a cinghie di trasmissione dei partiti che li controllano, e creazione dei sindacati di categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori;
10) attuazione, particolarmente nel Mezzogiorno, della bonifica integrale che togliendo ai latifondisti le terre incolte, vengano rese produttive e quindi distribuite in proprietà gratuita ai contadini poveri.
Questi enunciati, che risalgono ai primi anni ’30, non sono che il logico sviluppo di quelli formulati nel 1919 e che ritroveremo espressi, ancor più lapidariamente, nel “Manifesto di Verona”.
(Mussolini – 14 ottobre 1944).
Il teorico e storico della dottrina cattolica Don Ennio Innocenti, che tanti anni ha dedicato allo studio e all’insegnamento, ha scritto che il problema affrontato da Mussolini nell’ultimo decennio della vita “fu quello di far entrare il corporativismo nelle imprese per elevare il lavoratore da collaboratore dell’impresa a partecipe alla gestione e alla proprietà e quindi ai risultati economici della produzione. E aggiunge: “Durante la R.S.I. fu emanato un decreto che prevedeva la socializzazione delle imprese. E’ stato questo, sostanzialmente, il messaggio che Mussolini ha affidato al futuro. E’ un messaggio in perfetta armonia con la Dottrina Sociale Cattolica, che è e resterà sempre radicalmente avversa sia al capitalismo sia al social-capitalismo. In quest’ultimo messaggio mussoliniano di esaltazione del lavoro noi ravvediamo qualcosa di profetico”.
L’idea di un “socialismo effettuabile” sorse in Mussolini già nel 1914, quando uscì dal Partito Socialista, organismo velleitario e ciarliero, e la sviluppò nell’immediato dopoguerra.
Leggi d’avanguardia
In questo secondo dopoguerra è stato scritto e detto che l’idea mussoliniana della Socializzazione “fu un tardivo espediente per ingannare le masse lavoratrici”. E’ una delle tante menzogne, fra le mille e mille, di un regime corrotto e inetto terrorizzato dal dover affrontare un serio confronto con lo Stato che lo aveva preceduto.
Tutta l’attività del Governo Mussolini fu un susseguirsi costante di decreti e leggi di chiara finalità sociale, all’avanguardia, non solo in Italia, ma nel mondo.
Quelle leggi, di cui i lavoratori italiani ancora oggi godono i privilegi, sono quelle volute da Mussolini nei suoi vent’anni di governo. Qualsiasi confronto con quanto fatto dai governi di quest’ultimo dopoguerra risulterebbe stridente.
Da tutto ciò si evince il motivo per il quale i governi che seguirono nel dopoguerra, per evitare un democratico confronto, sono stati costretti a creare una cortina di menzogne e contestualmente varare leggi antidemocratiche e liberticide, quali le “Leggi Scelba”, “Legge Reale”, e “Legge Mancino”.
I principi essenziali dell’ordinamento corporativo sono espressi e ordinati dalla “Carta del Lavoro” che vide la luce il 21 aprile 1927. La “Carta del Lavoro” portava il lavoratore fuori dal buio del medioevo sociale per immetterlo in un contesto di diritti dove i rapporti fra capitale e lavoro erano, per la prima volta nel mondo, previsti e codificati.
In un articolo di fondo apparso alcuni anni or sono su “Il Giornale d’Italia”, fra l’altro si leggeva: “La nascita dello Stato corporativo rappresentò il tentativo di superare i limiti del cosiddetto Stato liberare e l’incubo dello Stato sovietico. Il secondo conflitto mondiale infranse l’esperimento in una fase che era già cruciale a causa dell’isolamento internazionale provocato dalle sanzioni e dall’autarchia.
Il Diritto Corporativo tende a porre l’Uomo al centro della società postulando principi dei quali citiamo alcuni tra i più caratterizzanti:
1)ridimensionamento dello strapotere dei padroni attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa;
2)partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa;
3)partecipazione dei lavoratori alle scelte decisionali, onde evitare chiusure di aziende o licenziamenti improvvisi senza che ne siano informati per tempo i dipendenti, i quali sono interessati a trovare altre soluzioni atte a non perdere il posto di lavoro;
4)intervento dello Stato attraverso suoi funzionari, immessi nei Consigli di Amministrazione, allorquando le imprese assumono interesse nazionale, a maggior difesa dei lavoratori;
5)diritto alla proprietà in funzione sociale, cioè lotta alle concentrazioni immobiliari e diritto per ogni cittadino, in quanto lavoratore, alla proprietà della sua abitazione;
6)diritto alla iniziativa privata in quanto molla di ogni progresso sociale contro l’appiattimento collettivista e le concentrazioni capitaliste;
7)edificazione di una giustizia sociale che prelevi il di più del reddito ai ricchi e lo distribuisca fra le classi più povere attraverso la Previdenza Sociale, l’assistenza gratuita alla maternità e all’infanzia, le colonie marine e montane per bambini poveri, l’assistenza agli anziani, il dopolavoro per i lavoratori, i treni popolari, e via dicendo;
8)eliminazione dei conflitti sociali attraverso la creazione di un apposito Tribunale del Lavoro in base al principio che se un cittadino non può farsi giustizia da sé, altrettanto deve valere per i conflitti sociali; evitare scioperi e serrate che tanti danni provocano alle parti in causa ed alla collettività nazionale;
9)abolizione dei sindacati di classe, ormai ridotti a cinghie di trasmissione dei partiti che li controllano, e creazione dei sindacati di categoria economica con conseguente modifica del Parlamento in una Assemblea composta da membri eletti attraverso le singole Confederazioni di categoria dei datori di lavoro e dei lavoratori;
10) attuazione, particolarmente nel Mezzogiorno, della bonifica integrale che togliendo ai latifondisti le terre incolte, vengano rese produttive e quindi distribuite in proprietà gratuita ai contadini poveri.
Questi enunciati, che risalgono ai primi anni ’30, non sono che il logico sviluppo di quelli formulati nel 1919 e che ritroveremo espressi, ancor più lapidariamente, nel “Manifesto di Verona”.
La Socializzazione
Una logica successione che partì dal lontano 1914 e approdò alle “Leggi sulla Socializzazione” nella Repubblica Sociale Italiana.
Sin dalla seduta del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 1943 (quindi a pochissimi giorni dalla sua liberazione), Mussolini fra l’altro dichiarava che “la Repubblica avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale”; e il 29 settembre, ancor più esplicitamente “un carattere nettamente socialista, stabilendo una larga socializzazione delle aziende e l’autogoverno degli operai”.
La Socializzazione si poneva come strumento per una più ampia trasformazione dello Stato così come era nel pensiero fascista: socializzare l’economia per socializzare lo Stato.
Questo disegno può risultare ancora più chiaro leggendo uno stralcio della Relazione che accompagnò il “Decreto Tarchi”, (Tarchi fu Ministro dell’Economia): “(…) la civiltà tende ad un nuovo ciclo nel quale l’uomo riassumerà il ruolo di protagonista della propria storia e del proprio destino in funzione della sua personalità estricantesi in attività concrete sociali, cioè nel lavoro. Sotto tale profilo l’affermazione programmatica che riconosce il lavoro come soggetto dell’economia (…)”.
Ecco, allora, prendere forma la dottrina della società come era intravista da Saint Simon, da Owen, da Mazzini: concezioni vilipese dal bolscevismo, ma ben focalizzate dal “socialismo effettuabile” di Mussolini, riportate nel “Manifesto di Verona” e ufficializzate nella dichiarazione programmatica del 13 gennaio 1944 e nel decreto legislativo dell’11 febbraio seguente.
La Borsa di Milano, che era ben vitale nella Repubblica Sociale, il 13 gennaio, all’annuncio dei provvedimenti sulla Socializzazione, accusò il giorno dopo una caduta dell’indice generale: da 854 a 727 punti. Dopo un periodo di stasi, quando il 13 febbraio furono emanati i Decreti sulla Socializzazione, l’indice generale scese a 567 punti. Poi, però, ad iniziare da marzo, riprese a salire fino a toccare, il 6 giugno 1944, il ragguardevole livello di 1745 punti.
Certamente il Paese, che sopportava oltre quattro anni di guerra e diversi mesi di lotta intestina, ben difficilmente poteva attuare, in tempi rapidi, un così ambizioso progetto di trasformazione dello Stato. Progetto, però, che come disse Mussolini a Milano, “qualunque cosa accada, è destinato a germogliare”.
Giustamente l’avvocato Manlio Sargenti ha osservato: “Purtroppo questo progetto non si è avverato. Gli italiani hanno dimenticato quella che costituiva la più originale, la più innovatrice proposta della loro storia recente. L’hanno dimenticata quelli stessi che si sono considerati gli epigoni dell’idea del Fascismo e della Repubblica Sociale”.
Prima di concludere, è importante citare gli articoli che costituiscono la base della nostra lotta politica: articoli che, ovviamente, a tanta distanza dalla loro promulgazione possono essere ritoccati lì dove è necessario, ma il cui spirito dovrebbe rimanere inalterato.
Art. 9) Base della Repubblica Sociale Italiana e suo progetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione.
Art. 10) La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa però non deve diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro.
Art. 12) In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa ripartizione degli utili tra il fondo e la riserva, il frutto del capitale azionario e la partecipazione degli utili stessi da parte dei lavoratori (…).
Gli articoli non menzionati sarebbero ugualmente meritevoli di essere ricordati, ma quelli sopra richiamati alla memoria da soli caratterizzano lo spirito del “Manifesto di Verona”.
L’attuazione della “Legge sulla Socializzazione” trovò enormi difficoltà causate sia dagli industriali, per ovvi motivi; sia dai tedeschi, timorosi che la resistenza passiva da parte degli industriali danneggiasse la produzione bellica; e da parte dei comunisti, che ormai plagiavano i lavoratori, timorosi che la Socializzazione li scavalcasse a sinistra.
Una logica successione che partì dal lontano 1914 e approdò alle “Leggi sulla Socializzazione” nella Repubblica Sociale Italiana.
Sin dalla seduta del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 1943 (quindi a pochissimi giorni dalla sua liberazione), Mussolini fra l’altro dichiarava che “la Repubblica avrebbe avuto un pronunciatissimo contenuto sociale”; e il 29 settembre, ancor più esplicitamente “un carattere nettamente socialista, stabilendo una larga socializzazione delle aziende e l’autogoverno degli operai”.
La Socializzazione si poneva come strumento per una più ampia trasformazione dello Stato così come era nel pensiero fascista: socializzare l’economia per socializzare lo Stato.
Questo disegno può risultare ancora più chiaro leggendo uno stralcio della Relazione che accompagnò il “Decreto Tarchi”, (Tarchi fu Ministro dell’Economia): “(…) la civiltà tende ad un nuovo ciclo nel quale l’uomo riassumerà il ruolo di protagonista della propria storia e del proprio destino in funzione della sua personalità estricantesi in attività concrete sociali, cioè nel lavoro. Sotto tale profilo l’affermazione programmatica che riconosce il lavoro come soggetto dell’economia (…)”.
Ecco, allora, prendere forma la dottrina della società come era intravista da Saint Simon, da Owen, da Mazzini: concezioni vilipese dal bolscevismo, ma ben focalizzate dal “socialismo effettuabile” di Mussolini, riportate nel “Manifesto di Verona” e ufficializzate nella dichiarazione programmatica del 13 gennaio 1944 e nel decreto legislativo dell’11 febbraio seguente.
La Borsa di Milano, che era ben vitale nella Repubblica Sociale, il 13 gennaio, all’annuncio dei provvedimenti sulla Socializzazione, accusò il giorno dopo una caduta dell’indice generale: da 854 a 727 punti. Dopo un periodo di stasi, quando il 13 febbraio furono emanati i Decreti sulla Socializzazione, l’indice generale scese a 567 punti. Poi, però, ad iniziare da marzo, riprese a salire fino a toccare, il 6 giugno 1944, il ragguardevole livello di 1745 punti.
Certamente il Paese, che sopportava oltre quattro anni di guerra e diversi mesi di lotta intestina, ben difficilmente poteva attuare, in tempi rapidi, un così ambizioso progetto di trasformazione dello Stato. Progetto, però, che come disse Mussolini a Milano, “qualunque cosa accada, è destinato a germogliare”.
Giustamente l’avvocato Manlio Sargenti ha osservato: “Purtroppo questo progetto non si è avverato. Gli italiani hanno dimenticato quella che costituiva la più originale, la più innovatrice proposta della loro storia recente. L’hanno dimenticata quelli stessi che si sono considerati gli epigoni dell’idea del Fascismo e della Repubblica Sociale”.
Prima di concludere, è importante citare gli articoli che costituiscono la base della nostra lotta politica: articoli che, ovviamente, a tanta distanza dalla loro promulgazione possono essere ritoccati lì dove è necessario, ma il cui spirito dovrebbe rimanere inalterato.
Art. 9) Base della Repubblica Sociale Italiana e suo progetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione.
Art. 10) La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa però non deve diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro.
Art. 12) In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa ripartizione degli utili tra il fondo e la riserva, il frutto del capitale azionario e la partecipazione degli utili stessi da parte dei lavoratori (…).
Gli articoli non menzionati sarebbero ugualmente meritevoli di essere ricordati, ma quelli sopra richiamati alla memoria da soli caratterizzano lo spirito del “Manifesto di Verona”.
L’attuazione della “Legge sulla Socializzazione” trovò enormi difficoltà causate sia dagli industriali, per ovvi motivi; sia dai tedeschi, timorosi che la resistenza passiva da parte degli industriali danneggiasse la produzione bellica; e da parte dei comunisti, che ormai plagiavano i lavoratori, timorosi che la Socializzazione li scavalcasse a sinistra.
Se ci sei batti un colpo
Questa situazione di stallo persistette sino a quando Concetto Pettinato, che Mussolini stesso aveva definito “la nostra più importante mente giornalistica”, creò un caso clamoroso. Un suo articolo del 1944 pubblicato su “La Stampa” (di cui Pettinato era direttore), con il titolo: “Se ci sei batti un colpo”, diede una sferzata e costrinse a mettere in atto quelle leggi sulla Socializzazione che, come abbiamo visto, erano già approvate in sede legislativa, ma rimaste inoperanti
. Mussolini ruppe gli indugi e autorizzò l’entrata in vigore del Decreto del febbraio ’44 a partire dal giugno dello stesso anno.
A causa della drammatica crisi che attraversava il Paese, Mussolini ritenne opportuno attuare la Socializzazione per gradi, iniziando dalle imprese editoriali.
La situazione stava precipitando, ma nelle imprese socializzate si riscontrò un notevole incremento della produzione. A dicembre 1944 Nicola Bombacci programmò una serie di comizi e conferenze fra le imprese socializzate e, tra queste, visitò la Mondatori, traendone sorpresa ed emozione.
A seguito di ciò, inviò una lettera a Mussolini nella quale, fra l’altro, scrisse: “Ho parlato con gli operai che fanno parte del Consiglio di gestione, che ho trovato pieni di entusiasmo e compresi di questa loro missione, dato che gli utili, dopo questi primi mesi è di circa 3 milioni”.
La guerra volgeva ormai alla fine e, come ha scritto Amicucci ne “I 600 giorni di Mussolini”: “Mussolini voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero il nord d’Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la R.S.I.. Proprio a questo scopo il 22 marzo 1945 il Consiglio dei Ministri decise che si procedesse entro il 21 aprile, alla Socializzazione delle imprese con almeno100 dipendenti e un milione di capitale.
Ma il giorno precedente quella data gli eserciti invasori ruppero il fronte a Bologna e dilagarono nella pianura Padana.
Era la fine.
I comunisti che controllavano il CLNAI, come primo atto ufficiale, addirittura il 26 aprile, proprio mentre si continuava a sparare e mentre era iniziato “l’olocausto nero”, abolirono la “Legge sulla Socializzazione”. E questo per ripagare i grandi industriali che avevano finanziato la Resistenza. Fu il “capolavoro” di Mario Berlinguer, il padre di Enrico, il grande capitalista, super proprietario terriero.
Era iniziata la grande beffa ai danni dei lavoratori.
Questa situazione di stallo persistette sino a quando Concetto Pettinato, che Mussolini stesso aveva definito “la nostra più importante mente giornalistica”, creò un caso clamoroso. Un suo articolo del 1944 pubblicato su “La Stampa” (di cui Pettinato era direttore), con il titolo: “Se ci sei batti un colpo”, diede una sferzata e costrinse a mettere in atto quelle leggi sulla Socializzazione che, come abbiamo visto, erano già approvate in sede legislativa, ma rimaste inoperanti
. Mussolini ruppe gli indugi e autorizzò l’entrata in vigore del Decreto del febbraio ’44 a partire dal giugno dello stesso anno.
A causa della drammatica crisi che attraversava il Paese, Mussolini ritenne opportuno attuare la Socializzazione per gradi, iniziando dalle imprese editoriali.
La situazione stava precipitando, ma nelle imprese socializzate si riscontrò un notevole incremento della produzione. A dicembre 1944 Nicola Bombacci programmò una serie di comizi e conferenze fra le imprese socializzate e, tra queste, visitò la Mondatori, traendone sorpresa ed emozione.
A seguito di ciò, inviò una lettera a Mussolini nella quale, fra l’altro, scrisse: “Ho parlato con gli operai che fanno parte del Consiglio di gestione, che ho trovato pieni di entusiasmo e compresi di questa loro missione, dato che gli utili, dopo questi primi mesi è di circa 3 milioni”.
La guerra volgeva ormai alla fine e, come ha scritto Amicucci ne “I 600 giorni di Mussolini”: “Mussolini voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero il nord d’Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la R.S.I.. Proprio a questo scopo il 22 marzo 1945 il Consiglio dei Ministri decise che si procedesse entro il 21 aprile, alla Socializzazione delle imprese con almeno100 dipendenti e un milione di capitale.
Ma il giorno precedente quella data gli eserciti invasori ruppero il fronte a Bologna e dilagarono nella pianura Padana.
Era la fine.
I comunisti che controllavano il CLNAI, come primo atto ufficiale, addirittura il 26 aprile, proprio mentre si continuava a sparare e mentre era iniziato “l’olocausto nero”, abolirono la “Legge sulla Socializzazione”. E questo per ripagare i grandi industriali che avevano finanziato la Resistenza. Fu il “capolavoro” di Mario Berlinguer, il padre di Enrico, il grande capitalista, super proprietario terriero.
Era iniziata la grande beffa ai danni dei lavoratori.
Nessun commento:
Posta un commento