Nel suo
ultimo film “Educazione siberiana”, Gabriele Salvatores, premio Oscar con
“Mediterraneo”, racconta una storia di fede e violenza, di amicizia e di
crimine. Ma, sotto questa trama, si dipanano grandi interrogativi sulla
formazione della coscienza, sul senso ultimo delle cose e sul destino
dell'uomo. Siamo stati a vederlo e con l'estensore della recensione ne abbiamo conversato amabilmente a cena.
[Recensione a cura di Caterpillar]
Il film è la storia di ragazzi che passano
dall'infanzia all'adolescenza, all'interno di una comunità di "Criminali
Onesti" siberiani, così come loro stessi amano definirsi, rappresentando,
attraverso un microcosmo molto particolare, una storia universale che, al di là
delle implicazioni sociali, acquista un significato metaforico che riguarda
tutti noi.
Solo Gabriele Salvatores può e vuole
fare il cinema che tutti abbiamo sognato da ragazzini e non quello autoriale di
chi s’è dimenticato d’esserlo stato, bambino. Non si ferma mai in un posto, non
cerca mai la sicurezza di ciò che ha già sperimentato, va sempre dove non è
stato. Lo fa anche in questo caso, con Educazione Siberiana, facendosi
accompagnare dalla prosa secca e feroce di Nicolai Lilin, che quel modo di
sopravvivere e crescere in Transnistria l’ha sperimentato davvero, a somiglianza di molti
altri adolescenti educati alle durezze della vita dall’angustia dei tempi
toccati loro in sorte, che gli hanno però insegnato il rispetto della
tradizione, l’attaccamento ai valori, il senso della pedagogia familiare, anche
se orientata verso l’apprendimento di una mentalità criminale. Un
impietoso atto d’accusa contro la nostra società sazia e indifferente, narcisista e
cinica.
Diciamolo subito, il regista
napoletano di nascita e milanese d’adozione, riesce subito a disinnescare
quella curiosa malattia che coglie molti nel cinema italiano portandoli a
uniformarsi a un unico stile di racconto e a un rigido conformismo di contenuti
da salotto più o meno radical chic. Salvatores spariglia le carte portandoci
nell’ex Unione Sovietica e raccontandoci
di due bambini, poi adolescenti che crescono in Transnistria, regione
della Moldavia Occidentale, nella comunità criminale locale più povera e
cattiva, quella degli Urca siberiani, deportati ai tempi di Stalin in quella
zona remota dell'Unione Sovietica: un'etnia povera molto religiosa e insieme
ribelle, in cui vigono regole ferree di comportamento…
A far da filo rosso (sangue) è
Nonno Kuzya, un John Malkovich invecchiato e ieratico che custodisce le regole
della morale indigena, difendendole dalla modernità di un impero caduto, quello
sovietico. Odia divise e banchieri, gli usurai e chi accumula più denaro di
quanto gli sia necessario (e infatti quello che viene rubato va nascosto in
giardino e mai tenuto in casa), è una sorta di guru-patriarca che detta le
regole dell’etica e dell’estetica del suo popolo, tra coltelli e tatuaggi,
insegnando a vivere al nipote Kolyma. Accanto a lui c’è Gagarin un outsider in una terra di emarginati. Uno
che ha un cuore diviso tra la lealtà di un affetto invincibile verso l’amico di
sempre e l’inquietudine che lo corrode. Una bomba a orologeria e
autodistruttiva, uno che può far crollare un sistema di valori costruito in
secoli di devozione e omicidi, vendette e fede.
Salvatores parte da loro due per
raccontare un impero morente, quello sovietico, e un nichilismo invadente che
lo sostituisce, prova a mostrare la globalizzazione che prova a sporcare pure
la criminalità più o meno organizzata, a colpi di chili di eroina.
Il cineasta non cerca sovrastrutture, ma l’emotività e l’azione.
C’è politica e storia nel suo cinema, perché cresce e si intravede naturalmente
in un tragico romanzo di formazione che non fa sconti a nessuno, persino in
quella storia d’amore tenerissima e sbagliata di Kolyma e la giovane disadattata Xenia.
Il film si apre in un esterno, con un branco di lupi che vaga compatto in
mezzo alla neve: la scena è concitata, si sente il gelo, si sente la fame del
branco. Pochi istanti dopo la scena si fa intima: dentro una casa, alla luce
delle candele, nonno Kuzja prega davanti a un altare. Prega la Madonna, «Santa Madre del Santissimo Iddio»,
raffigurata da due icone russe: una tradizionale, l'altra con due pistole.
Accanto, un crocefisso e altre figure votive. Ma anche armi, pugnali. E la
preghiera è insolita: si chiede protezione e perdono per loro, «onesti
criminali», benedizione per le armi e le traiettorie dei proiettili, nella
concezione di essere strumenti dell'ira di Dio. «La picca è come la croce, lei ti accompagna per tutta la nostra vita
», dice a Kolima nonno Kuzja, mentre gli insegna a colpire a sangue freddo, ma al contempo
a proteggere i deboli, i disabili, (che gli Urca chiamano i “voluti da Dio”),
gli anziani e le donne, in un mix paradossale e insieme autentico di pedagogia
ed etica criminale. La fede, qui, non è mai disgiunta dalla lotta, dalla
giustizia anche con le armi. E, come c'è il sangue, c'è tanto Dio in Educazione
siberiana. Perché, come ci insegna l’Apostolo delle Genti, “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20).
Un racconto generazionale che
diventa film di guerra, un Romanzo Criminale che sì, senza sfuggirgli
di mano, si mischia a una sorta di Meglio
gioventù rovesciata.
Le redini della strana spiritualità
materialistica della comunità comandata da Kuzja, la poetica dei tatuaggi che
scrivono sui corpi le storie di ognuno (e che Kolyma, in carcere, imparerà a
disegnare e leggere: nella realtà è Lilin il suo consulente), la forza di voci
incattivite che cacciano, cantando, l’autorità sono tutte nella potenza
immaginifica di un regista che non si stanca mai di narrare nuovi mondi. E in
quei due ragazzi, alla fine, si vede l’amicizia tra lo stesso Salvatores e
Lilin, che si evince dalle interviste oltre che dal film stesso.
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