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lunedì 23 settembre 2013

(neo)Fascismo e tradimento

Un articolo interessante, da leggere e riflettere, che ben chiarisce il perché prima di sparare sentenze a destra e a manca, e sbandierare ai tradimenti, bisogna imparare ad essere giudici severi di sé stessi e delle proprie azioni.
Nel cosiddetto “ambiente” (cosiddetto di Destra) è spesso un gran vociare di “tradimenti” vari, visto che va sempre di gran moda la gara a chi è più intransigente e ortodosso. Il più grande, a detta di molti, quello di Fiuggi: la cosiddetta svolta del Msi in Alleanza Nazionale (1995).
Lasciando da parte il fatto che non ci è chiaro di quale “tradimento” si parli, visto che il Msi – camerati caduti ed alcune rare personalità a parte… – non è mai stato un vero movimento nazional-rivoluzionario, e perciò identico nella sostanza alla sua successiva evoluzione (An), quello che vogliamo qui evidenziare è come il “tradimento” sia una sorta di costante del (neo)fascista.
Ebbene si. Perché se si inorridisce per la svolta aennina bollandola come scelta eretica e infame, e prendendola come riferimento del tradimento maximo per eccellenza, allora bisognerebbe fare un pochino di più ampia autocritica richiamandosi alla precedente esperienza Fascista (con la F maiuscola) per capire dove – per così dire – Fiuggi o tutti gli altri “tradimenti”, piccoli e grandi, traggano origine storica e… antropologica.
Il tradimento del 25 luglio, che costò a Mussolini e all’Italia umiliazioni e dolori profondi, non è il tradimento pour excellence della storia fascista. Nemmeno l’8 di settembre, tanto più che, in quel caso, a macchiarsene non furono dei fascisti.
Il tradimento dei tradimenti fu quello dei tantissimi giovani fino a quel momento allevati dal Regime come fucina d’élite e futuri quadri dirigenti dello Stato fascista. Ci riferiamo a quel vasto mondo giovanile che, per anni, animò l’ambiente interno al triangolo: “Guf”-”Scuola di Mistica Fascista”-”Littoriali”. La denuncia, che non è nostra e non è di oggi, ha avuto in Nino Tripodi e nel suo libro-denuncia “Italia fascista in piedi!” il suo massimo paladino. Tripodi che fu littore e fu “gufino” (appartenente cioè ai Guf, i Gruppi Universari Fascisti) racconta con dovizia di particolari il tradimento di quella generazione che fece dell’intransigenza e della (allora di moda) “bonifica integrale” i propri cavalli di battaglia. Forse non erano veramente di “battaglia”, bensì di “Troia” (i cavalli, si badi bene, e non “figli di…”!), fatto sta che quei giovani così solerti e accaniti animatori delle riviste del tempo (ufficiali e controllate dal Pnf), battaglieri polemisti e vivaci intellettuali, così solerti al richiamo di Marte distruggitore e dello Stato Totalitario, Gerarchico e Corporativo, finirono in molti, quasi tutti, riciclati nel successivo regime democratico. Non come esponenti di terzo o quart’ordine, ma come “prima linea”: Aldo Moro, Amintore Fanfani, Paolo Emilio Taviani, come anche i Guttuso e tanti altri nomi oggi un pò meno noti, venivano tutti dai Littoriali (una sorta di “Oscar” – ci sia passato il paragone… – della cultura fascista giovanile).
Ma, già allora, mentre c’erano i littori bravi solo a parole, c’erano quelli che, davvero, andavano fino in fondo, e coerentemente, alternavano all’impegno “culturale” anche quello militare, andando a servire in Africa Orientale, e poi in Spagna, fino alla Guerra Mondiale vera e propria. E, guarda caso, proprio quelli meno solerti a partire per la guerra, saranno poi quelli più rapidi e convinti nello smobilitare la camicia nera per prendere la tessere del Psi o del Pci clandestini. Magari retrodatando di qualche mese il tesseramento, giusto per non risultare ancora troppo in odore di Fascismo.
I peggiori, però, li troviamo proprio in seno alla Scuola di Mistica Fascista. A fianco dei migliori, della vera élite, infatti, troviamo gli Zangrandi, i Gatto, ed altri che erano membri effettivi della Scuola. Quella stessa Scuola che declamava, animata dai Giani e dai Pallotta, la necessità «di avere coraggio», covò senza saperlo diverse serpi in seno. Serpi al punto che, per rifarsi una verginità politica, non esitarono a dare alle stampe copiose pubblicazioni a partir dagli anni ’60, in cui smentivano in maniera puerile e fantasiosa, ogni loro legame col Regime mussoliniano.
Ecco la lezione, dunque. Se a Fiuggi è stato possibile un “tradimento” – posto il fatto che vale quanto già detto sopra…- è solo perché dalla lezione magistralmente offerta (in negativo) da quella generazione di imboscati e doppiogiochisti non si è tratto nulla. Non v’è stato alcun processo a quella generazione e, soprattutto, il verdetto non è stato recepito da chi è venuto dopo. Questo potrebbe così sintetizzarsi: prima di invocare la “bonifica integrale” verso questo o quello, bisognerebbe avere la forza di invocare l’intransigenza verso se stessi, misurandola realmente e non solo a parole. Un insegnamento tanto semplice quanto dimenticato.
Molti dei “mistici” – e sappiamo su quali esempi viventi ed energie potevano contare allora quei giovani – furono solo degli abili virtuosi della parola, fautori di sofismi mussoliniani e nulla più. Eppure, leggendo quelle loro pagine, chi vi scorgerebbe il seme del tradimento e dell’antifascismo? Sono righe magistrali e profonde. Ma sono nulla senza l’esempio e, infatti, alla prova dei fatti questi giovani si rivelarono per quello che erano: banderuole pronte a cambiar di direzione, appena fosse cambiato il vento.
Noi cosa avremmo fatto al loro posto? Il 25 luglio avremmo tradito? E’ questa la domanda che deve assillarci, “disperatamente”, ogni giorno. Fanaticamente e profondamente rispondere ogni giorno non alla mattina quando ci si alza, ma alla sera, quando è possibile fare i conti con quello che si è realmente fatto durante il giorno. Rispondere con l’intransigenza di un supremo giudice, il cui verdetto è “si” oppure “no”, mettendo al bando il condizionale ed il “forse”. Solo così potremo approcciarci, con «intelletto d’amore», per usare le parole di Arnaldo, a queste grandi figure del passato con la certezza di poter dire “Non ho tradito”.

Andreia Nikelaos
fonte: AzioneTradizionale.com

domenica 8 settembre 2013

8 settembre 1943

Pubblichiamo un articolo che chiarisce i motivi del voltafaccia avvenuto l'8 settembre 1943 di cui oggi ricorre il triste anniversario. Mentre tutti festeggiano, non rendendosi conto di avere rinnegato la propria storia, la propria tradizione e le proprie radici, noi vogliamo ribadire come in quella fatale data (come anche nel maggiormente celebrato 25 aprile) l'Italia abbia finito di scrivere da sé il proprio destino per affidarlo ad altri, divenendo colonia sottomessa ai poteri forti del sistema liberal-capitalistico. Se oggi ci ritroviamo un patria ignava, sciatta e menefreghista, con un governo inutile e scialacquone, lo dobbiamo agli individui che allora, insinuatosi tanto abilmente quanto viscidamente (causa l'eccessiva fiducia che Mussolini riponeva nei suoi uomini) nelle più alte gerarchie militari dello Stato, hanno patteggiato nell'ombra, consegnando la propria terra al nemico. È il risultato dell'opera orchestrata per bene da chi, con una visione del mondo che ignora, o meglio calpesta, quei Principi e quei Valori che oltrepassano l'egoismo e la visione individualistica in favore di un bene più alto (e che avevano permesso la rinascita del nostro Stato dalle ceneri del primo dopoguerra), ha spianato la strada alla livellatrice e narcotizzante visione consumistica-materialistica che ci ha reso un Paese di inermi e paciosi schiavi ...

Come ogni anno ci approssimiamo alla data che vide nel 1943, anche se annunciato, il clamoroso voltafaccia dell’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Le istituzioni democratiche salutano come sempre la ricorrenza, richiamando il popolo attraverso i soliti comunicati e le solite messe in scena agli immor(t)ali valori della Resistenza e dell’Antifascismo.
 Mentre tutti sono impegnati ad esaltare quello che di fatto fu un capolavoro di viltà e di tradimento, noi vorremmo analizzare le cause, che portarono l’Italia, allora una potenza regionale ed una delle più importanti nazioni al mondo, ad intraprendere una guerra di tale portata nell’improvvisazione e nell’impreparazione più assolute e ad uscire dal conflitto in maniera tanto ignobile.

Come è noto, l’Italia fascista dal maggio del 1939 era unita alla Germania nazionalsocialista da un trattato di alleanza, il Patto di Acciaio, che obbligava i due contraenti a intervenire in guerra a fianco dell’alleato. Mentre la retorica antifascista addita tale patto come l’ennesima prova dell’imperialismo e dell’aggressività dei due regimi, noi sappiamo che già da tempo le democrazie liberal-capitaliste occidentali, in primo luogo Regno Unito e Francia erano attivamente schierate contro i due paesi, dei quali temevano non tanto la potenza quanto l’attitudine spiccatamente anti-capitalista e anti-democratica. Basti pensare all’atteggiamento degli occidentali durante la Guerra di Etiopia (1936) e la Guerra civile Spagnola (1936-1939), durante le quali i regimi fascisti furono apertamente e aspramente condannati. Nel primo caso si rimproverava agli italiani di aver ingiustamente sottratto agli Etiopi la loro terra (n.b. Francia e Inghilterra erano all’epoca i due più grandi imperi coloniali al mondo), mentre nel secondo gli italo-tedeschi erano accusati di aver illegittimamente interferito con gli affari interni di un paese straniero (… ma rifornimenti di uomini, armi ed equipaggiamenti affluivano puntualmente ai nemici di Franco attraverso la frontiera francese e dai porti nel Mediterraneo su navi sovietiche). Fu in questa condizione che Italia e Germania formarono un’alleanza, per difendersi dall’aggressiva coalizione antifascista che si era costituita in Europa.

In tale contesto, vista l’impossibilità di arginare l’ascesa dei paesi fascisti sul piano politico e diplomatico, era inevitabile che, messa da parte l’ipocrita e vile retorica pacifista, le nazioni occidentali decidessero per un intervento armato contro i due alleati. Il pretesto per tale intervento è l’invasione tedesca della Polonia, che incoraggiata dalle promesse di protezione anglo-francesi, si ostinava a non voler restituire Danzica (… una città tedesca ingiustamente assegnata ai polacchi al termine della Grande Guerra).
Non solo nell’arco dei trenta giorni della campagna di Polonia gli inglesi e i francesi non invieranno neppure un uomo in aiuto del loro alleato, che avevano giurato di difendere, ma lasceranno mano libera alla Russia sovietica, per invadere e sottomettere la metà orientale della nazione…

Eppure, gia da ora iniziano le prime avvisaglie di quello che sarebbe accaduto l’ 8 settembre del 1943 con l’armistizio e il tradimento italiano. Mentre la Germania era aggredita dalle potenze straniere (infatti, furono Francia e Inghilterra a dichiarare guerra ai tedeschi dopo l’attacco alla Polonia nel 1939), gli italiani, che in base al Patto d’Acciaio avrebbero dovuto intervenire in difesa del loro alleato, fanno sapere di non essere intenzionati a scendere in campo. Nel partito fascista e nel governo esisteva, infatti, una forte corrente anti-tedesca, formata per lo più da opportunisti e da appartenenti ad ambienti legati all’industria, alla monarchia e alla massoneria, i quali in combutta con le istituzioni massonico-mondialiste internazionali, spingevano per tenere l’Italia fuori dalla guerra.
La situazione assume però una piega del tutto imprevista. I tedeschi, dopo aver ultimato la conquista della Polonia, occupano quasi senza sforzo Danimarca e Norvegia e nel maggio del 1940 travolgono la Francia con la loro guerra-lampo. A questo punto, vedendo prossimo il crollo dello schieramento democratico, gli stessi che pochi mesi prima avevano premuto per il non intervento ora vedono una clamorosa opportunità. Sperano di accontentare amici e nemici, dichiarando la guerra senza farla e, schierano l’Italia in prima linea, senza che l’industria e le forze armate siano minimamente preparate al confronto internazionale. La fine della guerra sembra ormai prossima, infatti, l’Inghilterra da sola non è in grado di contrastare la forza dell’Asse, è assediata e aggredita su tutti i fronti l’isola e sarà costretta a cedere.

Ed è proprio a questo punto che la miserabile opera dei traditori inizia a corrodere la solidità e la compattezza del nostro schieramento. L’ingresso in guerra dell’Italia, anziché imprimere una svolta decisiva al conflitto (come avrebbe benissimo potuto essere) regala agli Alleati le loro prime vittorie. Gli alti comandi dell’esercito e soprattutto della marina sono infatti disseminati di ufficiali ostili al regime e notoriamente filo-monarchici e filo-britannici. Costoro hanno il preciso obiettivo di condurre le forze armate italiane al disastro, come avviene per tutta la durata della guerra. La X armata italiana viene catturata quasi al completo in Libia; Malta la principale roccaforte inglese non viene occupata, sebbene sia praticamente sguarnita; Taranto la principale base della marina militare viene attaccata ed espugnata da una piccola forza Inglese, mentre le difese italiane non sparano un solo colpo e via discorrendo.

Mentre al fronte i nostri soldati sono lasciati in balia di questi traditori, che per altro in patria vengono riconosciuti come valorosi e brillanti ufficiali, in Italia gli industriali, i medesimi che sostenevano la non belligeranza, si godono i profitti della guerra, infatti, le forniture belliche sono scientemente mantenute su livelli obsoleti, perchè la modernizzazione della produzione avrebbe rappresentato un costo aggiuntivo per l’industria.
I nostri soldati sono così mandati a combattere su carri armati che non riescono a perforare le corazze nemiche e su aerei con motori privi di filtri per la sabbia. La Marina dal canto suo non è da meno.  Durante la famosa “Battaglia dei convogli”, tra il ‘40 e il ’43, che vide contrapposte le forze aero-navali dell’Asse e degli Alleati, che rifornivano le rispettive truppe in Nord Africa, gli Alti Comandi della nostra flotta, sebbene potessero disporre della quarta marina più potente al mondo, inferiore soltanto alla statunitense, alla giapponese e alla britannica (tra l’altro dispersa su una varietà di scacchieri), non solo cedono costantemente informazioni al nemico (… gran parte degli ammiragli italiani è sposato o imparentato con donne inglesi o americane), ma muovono la flotta navale con una logica ben precisa, volta al temporeggiamento e poi alla distruzione o alla resa di navi e uomini. Quando la superiorità inglese è evidente gettano i convogli in bocca al nemico, quando il nemico è in netta inferiorità ritirano le loro navi, con la scusa di non voler consumare carburante e di non mettere in pericolo le loro unità, lasciando campo libero. La Marina, che avrebbe potuto imprimere una svolta decisiva alla nostra guerra, è così resa totalmente inoffensiva.

Il seguito di queste vicende è gia noto. Nel 1943, mentre la guerra volge complessivamente a sfavore dell’Asse (controffensiva sovietica sul fronte orientale, vittorie aero-navali americane nel Pacifico e conquista del Nord Africa da parte degli anglo-americani), si consumano gli atti finali della farsa italiana. L’isola di Pantelleria roccaforte italiana nel Mediterraneo, presidiata da 12.000 uomini al comando (…tanto per cambiare di un ammiraglio), si arrende senza combattere (sconfortante il confronto con Iwo Jima, primo lembo di terra giapponese invaso dagli americani, dove l’intera guarnigione preferì sacrificarsi in attacchi suicidi dopo un’accanita resistenza) e l’intera flotta italiana, forte di unità, che avrebbero reso l’avanzata alleata estremamente difficile, se non impossibile, si consegna al nemico o si autoaffonda. A Roma, intanto, Mussolini è sfiduciato e messo agli arresti, mentre i gerarchi, la famiglia reale e gli alti ufficiali, dopo essersi accordati con il nemico, si danno ad una precipitosa fuga, proprio mentre inglesi e americani avanzano in Sicilia, commettendo ogni genere di atrocità contro la popolazione.
Forti della totale situazione di sbandamento politico-militare, gli antifascisti, che, fino ad ora erano rimasti nascosti e mimetizzati, danno vita ad una delle più infami pagine della storia del nostro paese, quella della guerriglia terroristica (non certo Resistenza, ma meri atti di prevaricazione, violenze, omicidio e ladrocinio compiuti spesso da comuni criminali, avanzi di galera in libera uscita), portata avanti da molte compagini partigiane e in parte riscattata dal coraggio e dalle valorose imprese dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana e della Wermacht.

In conclusione, possiamo assolutamente affermare, che quello che viene commemorato l’8 settembre e il 25 aprile di ogni anno da parte delle nostre istituzioni coloniali (… l’Italia è di fatto, come anche il resto dell’Europa, una colonia americana) non è altro che l’epilogo di una infinita serie di trame, di tradimenti e complotti. Quest’ultimi orditi - contrariamente ad una visione del mondo basata sui valori di Lealtà, Onore, Sacrificio e Giustizi – da chi ha preferito battersi per gli interessi economici e la volontà di dominio di potenze straniere, governate segretamente da elìte finanziarie e massoniche.
“… sotto quali simboli, cercarono di organizzarsi le forze per una possibile resistenza, è noto. Da un lato, una nazione che, da quando era divenuta una, non aveva conosciuto che il clima mediocre del liberalismo, della democrazia e della monarchia costituzionale, osò riprendere il simbolo di Roma come base per una nuova concezione politica e per un nuovo ideale di virilità e di dignità. Forze analoghe si svegliarono nella nazione, che, essa stessa, nel Medioevo aveva fatto suo il simbolo romano dell’Imperium, per riaffermare il principio di autorità e il primato di quei valori, che nel sangue, nella razza, nelle forze più profonde di una stirpe hanno la loro radice. E mentre in
altre nazioni europee dei gruppi si orientavano già nello stesso senso, una terza forza si aggiungeva allo schieramento nel continente asiatico, la nazione dei samurai, nella quale l’adozione delle forme esteriori della civilizzazione moderna non aveva pregiudicato la fedeltà ad una tradizione guerriera incentrata nel simbolo dell’Impero solare di diritto divino. […] Se i nostri
uomini furono o no all’altezza del compito, se errori furono commessi in fatto di tempestività, di
completa preparazione, di misura del rischio, ciò sia lasciato da parte, ciò non è cosa che pregiudica il significato interno della lotta che fu combattuta.” (cit. da Orientamenti di Julius Evola, Edizioni Il Cinabro). Ecco svelarsi la straordinaria lotta dei Combattenti della RSI che contrastarono queste parassiti del genere umano, con l’unico obiettivo di creare un mondo totalmente soggetto a logiche materialistiche, utilitaristiche ed individualistiche. Un mondo vuoto e triste, popolato da uomini deboli e facili da dominare.  Ci rattrista di dover constatare che il loro progetto è, fino ad ora, pienamente riuscito. Nostro, Uomini in mezzo alle rovine,  il compito della risalita.


Franco Del Ghiaccio

sabato 7 settembre 2013

Il ragazzo dell’Europa, prima e dopo l’8 settembre

Ogni anno l’8 di Settembre, data spartiacque tra due mondi di concepire la vita e il mondo, non solo per l'Italia ma anche per l'Europa, ci offre l'occasione di spendere qualche riflessione che metta in chiaro, ancora una volta, la distanza tra l'orizzonte verso il quale le persone prima di questa data tendevano, come singoli e come popolo e il pantano borghese in cui ci troviamo. Per questo intento, lasceremo da parte i discorsi meramente politici, per analizzare lo stato d'animo di due canzoni simboliche delle due barricate, entrambe avente lo stesso titolo, "Ragazzo dell'Europa". 

Da una parte c'è la canzone di Gianna Nannini, che si contestualizza nell'Europa liberal-democratica dei nostri giorni, della libera circolazione del capitale e della forza lavoro. Un'Europa "comunitaria" che esiste per consumare e produrre e la cui unica preoccupazione è l'andamento dell'economia. Così, anche la vita dei giovani di questa Europa non può che essere inchinata alla materia ingannati come sono che quel che conta è vivere tutte le "esperienze" possibili attraverso la pratica e la profanazione di tutto. La canzone della Nannini esalta un randagismo che invita a spremere il proprio corpo come uno straccio per godere il più possibile, esaltando la vita istintuale che risucchia l'individuo nell'anonimato della specie. Il ragazzo di questa canzone non ha radici, esso "non pianta mai bandiera",  per cui non si sente neanche in dovere di trasmettere un'eredità che avrebbe dovuto cogliere con cura e consegnare a sua volta. 

L'altra canzone, invece, quella che richiama i valori che animarono l'Europa prima dell’8 settembre, è degli Hobbit. Il testo racconta di un ragazzo dell'Europa ben consapevole di appartenere a un suolo, a un popolo ed a un passato. Sa che solamente l'altitudine crea nuovi orizzonti e che vivere seguendo i piaceri è da plebeo mentre i nobili aspirano all’Ordine, alla Verità, alla Bellezza, alla Giustizia. La vita, in questo caso, non è un vagabondaggio, ma una missione che richiede fedeltà illimitata poiché colui che vede più lontano è anche colui che ha saputo salire più in alto.
Le opere artistiche, come i due brani musicali proposti, sono un indicatore dei valori  che hanno guidato la creatività dell’artista, per cui non ci stupiamo neanche più di tanto quando vediamo la Nannini spopolare con il suo inno alla dissolutezza mentre gruppi come gli Hobbit vengono emarginati dal mondo della musica propinata alle giovani generazioni.

Nico di Ferro