venerdì 13 novembre 2015

Capitalista e proletario, prodotti di un sistema malato

Il senso di valorizzazione del proprio lavoro, qualsiasi esso sia, dovrebbe essere sempre presente in una persona, in quanto qualsiasi lavoro ha una funzione all’interno di un meccanismo che può essere  complesso come un’industria.  Nell’attuale stato di cose, però diventa sempre più duro vedere persone serie e impegnate nel loro compito, perché coscienti di far parte di un’impresa e che facendo male la propria parte, va tutto a discapito del prodotto o servizio fornito al cliente. La distanza e il freddo distacco tra il capo e l’operaio si tramuta in avversione e rivendicazione di diritti, antagonismi che non possono che portare discordie, rallentamenti che sono da ostacolo per una normale attività. La consapevolezza da parte del sottoposto   di essere un dipendente e il riconoscimento del proprio capo quale superiore, deve precludere un rapporto in cui il proprietario veda i propri dipendenti per quali sono, uomini che forniscono energia in un processo organico in cui, come in un grande organismo, tutti a loro modo collaborano nello svolgimento di un determinato compito.


La rottura di questo legame tra il capo-capitalista e il produttore-rivendicatore di diritti crea sfaldamenti interni che non permettono un’azione ordinata e corretta, in cui ciascuno vede solamente il lato egoistico, in quanto il capitalista considera il dipendente come mezzo per ottenere il maggior numero di ore lavoro con la minor retribuzione possibile e contemporaneamente l’operaio cerca la maggior retribuzione per il minor numero di ore, in un vortice infinito di proteste e contrasti.
Le precedenti esperienze corporative in Italia e in Germania, (ma anche in Austria, Spagna, Portogallo) insegnano che ciò è possibile, in cui lo spirito di comunità produttiva e solidarietà uniti alla qualificazione e competenza dovuta ad un preciso sistema gerarchico garantiva l’eccellenza, sempre seguendo una rigida impersonalità attiva e senso della dignità.
In tale senso bisogna sempre tener presente come l’ordine economico all’ interno dello Stato sia un’ordine di mezzi, e non il fine, e che quindi esso sia subordinato all’ordine etico-politico che trascende la materialità e il profitto (aberrante quindi l’affermazione “Stato del lavoro”): tale visione prevede l’eliminazione del tipo del mercante col subentrare di una presa di posizione virile di fronte alle proprie competenze ed il proprio dovere.
Sulla questione ecco alcune illuminanti parti tratte da ”Gli uomini e le rovine” di Julius Evola:
 “ Le condizioni elementari per un ripristino dell’accennata condizione di normalità sono dunque da un lato (in basso) la sproletizzazione dell’operaio, dall’altro, in alto l’eliminazione del tipo deteriore del capitalista, semplice beneficiario parassitario di profitti e di dividendi, estraneo al processo produttivo. (…)
 in un nuovo sistema corporativo il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, dovrebbe invece riprendere la funzione di capo responsabile, di dirigente tecnico organizzatore al centro dei processi aziendali, e mettersi a stretto, personale contatto con gli elemneti più fidati e qualificati dell’impresa come in una specie di stato maggiore, avendo inorno a sé maestranze solidali, libere dal vincolo sindacale, fiere invece di appartenere alla sua azienda.” (…)
 “Nella varità di un lavoro essenzialmente meccanico è ben difficile che possa conservarsi il carattere di “arte” e di “vocazione” e che le estrinsecazioni di esso rechino l’impronta della personalità. Da qui il pericolo, per l’operaio moderno, di essere portato a considerare il lavoro come una semplice necessitàe le sue prestazioni come la vendita di merce ad estranei contro il massimo compenso , venendo meno i rapporti vivi e personali che nelle antiche corporazioni , e ancora in molti complessi del primo periodo capitalistico, erano esistiti tra capo e maestranze. (…)Bisognerebbe che l’autonomia e il disinteresse già  propri all’antico corporativismo risorgessero(…). A tale riguardo sarebbe decisiva una disposizione non dissimile da quella di chi sa tenersi in piedi anche nel logorio di una guerra di posizione. E sotto certi aspetti la prova , fra macchine e complessi industriali sviluppatisi fino a dimensioni mostruose , potrà essere per l’uomo medio, più ardua da superare  che non nel caso delle esperienze di guerra, perche se in queste ultime la distruzione fisica è la possibilità di ogni istante, tuttavia una serie di fattori morali ed emotivi forniscono all’uomo un sostegno che in gran parte è inesistente sul grigio, monotono fronte del lavoro moderno.”

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