Il senso di valorizzazione del proprio lavoro, qualsiasi
esso sia, dovrebbe essere sempre presente in una persona, in quanto qualsiasi
lavoro ha una funzione all’interno di un meccanismo che può essere complesso come un’industria. Nell’attuale stato di cose, però diventa
sempre più duro vedere persone serie e impegnate nel loro compito, perché
coscienti di far parte di un’impresa e che facendo male la propria parte, va
tutto a discapito del prodotto o servizio fornito al cliente. La distanza e il
freddo distacco tra il capo e l’operaio si tramuta in avversione e
rivendicazione di diritti, antagonismi che non possono che portare discordie,
rallentamenti che sono da ostacolo per una normale attività. La consapevolezza
da parte del sottoposto di essere un
dipendente e il riconoscimento del proprio capo quale superiore, deve
precludere un rapporto in cui il proprietario veda i propri dipendenti per
quali sono, uomini che forniscono energia in un processo organico in cui, come
in un grande organismo, tutti a loro modo collaborano nello svolgimento di un
determinato compito.
La rottura di questo legame tra il capo-capitalista e il
produttore-rivendicatore di diritti crea sfaldamenti interni che non permettono
un’azione ordinata e corretta, in cui ciascuno vede solamente il lato
egoistico, in quanto il capitalista considera il dipendente come mezzo per
ottenere il maggior numero di ore lavoro con la minor retribuzione possibile e
contemporaneamente l’operaio cerca la maggior retribuzione per il minor numero
di ore, in un vortice infinito di proteste e contrasti.
Le precedenti esperienze corporative in Italia e in
Germania, (ma anche in Austria, Spagna, Portogallo) insegnano che ciò è
possibile, in cui lo spirito di comunità produttiva e solidarietà uniti alla
qualificazione e competenza dovuta ad un preciso sistema gerarchico garantiva
l’eccellenza, sempre seguendo una rigida impersonalità attiva e senso della
dignità.
In tale senso bisogna sempre tener presente come l’ordine
economico all’ interno dello Stato sia un’ordine di mezzi, e non il fine, e che
quindi esso sia subordinato all’ordine etico-politico che trascende la
materialità e il profitto (aberrante quindi l’affermazione “Stato del lavoro”):
tale visione prevede l’eliminazione del tipo del mercante col subentrare di una
presa di posizione virile di fronte alle proprie competenze ed il proprio
dovere.
Sulla questione ecco alcune illuminanti parti tratte da ”Gli
uomini e le rovine” di Julius Evola:
“ Le condizioni
elementari per un ripristino dell’accennata condizione di normalità sono dunque
da un lato (in basso) la sproletizzazione dell’operaio, dall’altro, in alto
l’eliminazione del tipo deteriore del capitalista, semplice beneficiario
parassitario di profitti e di dividendi, estraneo al processo produttivo. (…)
in un nuovo sistema
corporativo il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, dovrebbe
invece riprendere la funzione di capo responsabile, di dirigente tecnico
organizzatore al centro dei processi aziendali, e mettersi a stretto, personale
contatto con gli elemneti più fidati e qualificati dell’impresa come in una
specie di stato maggiore, avendo inorno a sé maestranze solidali, libere dal
vincolo sindacale, fiere invece di appartenere alla sua azienda.” (…)
“Nella varità di un
lavoro essenzialmente meccanico è ben difficile che possa conservarsi il
carattere di “arte” e di “vocazione” e che le estrinsecazioni di esso rechino
l’impronta della personalità. Da qui il pericolo, per l’operaio moderno, di
essere portato a considerare il lavoro come una semplice necessitàe le sue
prestazioni come la vendita di merce ad estranei contro il massimo compenso ,
venendo meno i rapporti vivi e personali che nelle antiche corporazioni , e ancora
in molti complessi del primo periodo capitalistico, erano esistiti tra capo e
maestranze. (…)Bisognerebbe che l’autonomia e il disinteresse già propri all’antico corporativismo
risorgessero(…). A tale riguardo sarebbe decisiva una disposizione non dissimile
da quella di chi sa tenersi in piedi anche nel logorio di una guerra di
posizione. E sotto certi aspetti la prova , fra macchine e complessi
industriali sviluppatisi fino a dimensioni mostruose , potrà essere per l’uomo
medio, più ardua da superare che non nel
caso delle esperienze di guerra, perche se in queste ultime la distruzione
fisica è la possibilità di ogni istante, tuttavia una serie di fattori morali
ed emotivi forniscono all’uomo un sostegno che in gran parte è inesistente sul
grigio, monotono fronte del lavoro moderno.”
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