Il 2 novembre l'Unesco ha deciso di dedicarlo alla difesa dei giornalisti in ogni parte del mondo. Decisione che ci aiuta a ricordare molte importanti questioni legate al ruolo dell'informazione nella società moderna.
Dell'informazione negata, di quella falsificata, deformata, ingannevole, manipolatoria della pubblica opinione. Dell'informazione di Stato, che è quasi sempre bugiarda. Non meno che dell'informazione privata (nel senso che è in mano a possenti proprietari privati, i quali non hanno alcun interesse a un'informazione libera, pluralistica, che rispetti gl'interessi e i diritti dei lettori-spettatori).
Le cifre crude sono impressionanti e meritano un'attenzione preliminare. Nell'ultimo decennio circa 700 giornalisti sono stati uccisi in molte parti del mondo. Nove volte su dieci i responsabili l'hanno fatta franca. Questo apre un problema parallelo: quello della giustizia. Ma la maggior parte degli uccisi vive e lavora in paesi dove lo Stato di diritto quasi non esiste o non esiste del tutto, quindi sarà meglio rinviare la questione alla geopolitica. A me colpisce un altro dato statistico: il 94% delle vittime di questa professione sono giornalisti locali e solo il 6% sono corrispondenti stranieri. Noi, osservatori internazionali parliamo di solito solo di questo piccolo (seppure tragico) 6%.
Ma questo ci dice che i rischi più grandi non li corrono quelli che vanno a "coprire" — così si dice — gli eventi bellici. In questi casi si muore per una pallottola o una bomba vagante, o perché si cade nel mirino di un cecchino. Cioè il giornalista muore nelle stesse circostanze in cui muoiono i civili. E muoiono di più, ovviamente, coloro che, per mestiere, cercano le immagini, cioè i fotoreporter e i cine e tele operatori, costretti come sono a essere presenti sul luogo fisico dove si svolgono i combattimenti. Ma, appunto, sono una piccola minoranza. Molto più rischioso è raccontare la verità scrivendola e, per così dire, vicino alla porta di casa. Che significa raccontare le malefatte della criminalità locale, gl'intrecci malavitosi, gli arricchimenti indebiti. Le statistiche dicono che gli assassini che coabitano con i giornalisti sono molto più pericolosi delle pallottole vaganti.
Ma il problema che abbiamo di fronte riguarda non solo quelli che vengono uccisi perché hanno detto, o cercato di dire, la verità. Il problema riguarda tutti i giornalisti, che la verità non la possono dire in linea di principio. Perché, se ci provano, vengono semplicemente allontanati dal luogo di lavoro, o messi in condizione di non poter più scrivere. Nessuno li uccide fisicamente, ma tutti vengono privati, più o meno subdolamente, della loro professione, del loro lavoro, della possibilità di informare correttamente il pubblico.
E' una questione di potere, che non rientra nei casi penalmente rilevanti. Ma è una questione d'importanza cruciale per i destini della democrazia nel suo complesso. Si potrebbe dire, senza forzare la verità, che ogni azione tendente a impedire una corretta informazione è un crimine implicito che viene commesso nei confronti del pubblico. Le vittime della menzogna sono dunque masse sterminate, che sono colpite senza nemmeno che esse lo sappiano. Basta che qualcuno stenda un velo su una notizia perché milioni non sappiano neppure che essa è esistita. Ho letto su una pubblicità di un grande media internazionale (chi lo ha scritto ha dimenticato Citizen Kane, altrimenti non lo avrebbe fatto) questa orgogliosa frase: "Noi facciamo la notizia".
Che è però una confessione involontaria. Loro, in effetti, "fanno la notizia". E questo è già un buon motivo per dubitare che sia una cosa cui vale la pena di credere. E ce n'è un altro, di motivo per non credergli. Ed è che, come la fanno, la notizia, così possono decidere di non dartela proprio. Cioè di lasciarti all'oscuro. Per questo suggerisco ai lettori di non credere troppo alle classifiche che vengono redatte, di solito, negli Stati Uniti, o comunque in Occidente. Che danno i voti e stabiliscono le graduatorie dei singoli stati, dove ci sono i soliti cattivi, i paesi canaglia, i paesi di quello che un tempo era chiamato il "terzo mondo", dei paesi più poveri.
C'è, in quelle classifiche, un po' di vero e molto di falso. Si recensisce non la libertà di stampa, ma il livello di cultura dei paesi. E, mentre si mettono in fila i più arretrati, rispetto ai criteri formali della libertà di stampa in Occidente, ci si dimentica sistematicamente di ricordare che la libertà di stampa in Occidente, anche senza assassini, è solo un pallido ricordo. Anche nella conta dei morti noi occidentali siamo tendenziosi.
Durante la guerra di Ucraina sei giornalisti russi sono stati uccisi, ma la stampa italiana li ha quasi ignorati, o ignorati del tutto. In Ucraina, oggi, si uccidono i giornalisti, ma i nostri giornali e le nostre televisioni non se ne accorgono. Una giornalista inglese viene trovata impiccata nell'aeroporto di Istanbul, e non se ne hanno echi. Un'altra viene uccisa dai terroristi in zona di guerra, ma era una giornalista iraniana, dunque non vale la pena di parlarne. Figureranno, forse, negli elenchi dei giornalisti morti nel prossimo decennio. Ma siccome sono stati ammazzati in territorio "civile", è bene per il momento, dimenticarli.
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